giovedì 9 ottobre 2008

La domenica andavamo all'Olimpico

Roma-Juventus era il posticipo della seconda giornata di campionato: stadio Olimpico, ore 20,30. La ciliegina sulla torta di un weekend trascorso con Sara. Sabato sera andammo al cinema a vedere un film di cui nemmeno ricordo il titolo, forse perché il tempo della proiezione venne ingoiato dai baci senza fine che non riuscivamo a non darci quando ci trovavamo in un posto dove stavamo seduti al buio. All’uscita non trovammo nemmeno il tempo di cercare un locale per mangiare una pizza. Stimolati da due ore di languide effusioni entrambi non vedevamo l’ora di reclinare i sedili della macchina per fare l’amore.
Ogni volta che uscivo con lei ero eccitato. La storia con Sara mi aveva proiettato in una dimensione parallela nella quale, nonostante non fosse la prima volta che mi sentivo innamorato, il mondo che mi circondava aveva senso solo ruotando intorno a lei. Nemmeno gli amici, ai quali mai in passato avrei rinunciato, mi sembravano più fondamentali: mi bastava sapere che ci fosse lei, che avessi la possibilità di guardare da vicino i suoi sorrisi per sentirmi appagato e pensare di non aver bisogno di nient’altro.

“Dove vuoi andare?”
“Decidi tu” mi rispose con gli occhi annebbiati da quella tenerezza alla quale raramente si abbandonava.

E mentre guidavo diretto nelle zone di campagna che miracolosamente distavano pochi chilometri dalla casa dove abitavo, continuavo ad assalirla di baci e di carezze che mi portavano a contorsioni da trapezista. L’attrazione che ci legava era un mix inesorabile in cui il sesso ed il sentimento erano così intrecciati da sembrare inestricabili. Amavo Sara perché mi faceva sentire sulla cima dell’Everest e avevo voglia di farci l’amore perché di quella cima mi faceva respirare l’aria fresca ed impalpabile.

La domenica mattina il tempo non era dei migliori ma decidemmo ugualmente di andare a pranzo a Calcata. La partita era alle 20,30, per cui avevamo a disposizione tutto il tempo che volevamo per mangiare con calma, rientrare a Roma ed andare allo stadio.
Calcata è un piccolo paesino a qualche decina di chilometri da Roma famoso per i ristoranti che servono piatti tipici della cucina romana a prezzi buoni. Noi arrivammo intorno alle 14 e faticammo non poco per riuscire a trovare, nell’angusta piazzetta del paese, un posto per parcheggiare. Ci infilammo velocemente nel primo ristorante che incontrammo: fummo fortunati, perché era rimasto un solo tavolo libero. Ci concedemmo primo, secondo e dolce, perché eravamo giovani ed il metabolismo non era un problema. E perché l’ora un po’ tarda ci aveva messo un certo appetito.
Mentre aspettavamo di essere serviti chiacchieravamo di tutto, del lavoro e del nostro futuro, degli amici e delle nostre famiglie.
“Che ne dici se l’anno prossimo ci sposassimo?” mi disse all’improvviso interrompendo i miei discorsi con uno sguardo vibrante che detto da qualsiasi altra donna avuta in precedenza mi avrebbe sdraiato.
Si amore mio, sposiamoci domani, se solo fosse possibile: così avrei voluto risponderle stringendole la mano. Le sue parole mi facevano star bene. Quella domanda, venuta fuori dal nulla, così grande in sé, ascoltata da lei sembrava solo l’ultima parola di una canzone che senti in continuazione.
“Si, faremo così” fu l’unica risposta che le riuscii a dare.

Tornammo a casa sua in tempo per fare l’amore. L’ultima volta di quella settimana che andava a finire. L’ultima volta prima di Roma-Juventus.
Il calendario l’aveva sistemata alla seconda giornata di campionato, 14 settembre. L’attesa di noi tifosi della Roma era altissima: quella partita veniva a testare le nuove ambizioni di una squadra completamente rifatta, figlia di scelte societarie che avevano voluto tracciare una netta linea di separazione con gli anni passati. Nella campagna trasferimenti di quell’estate vennero mandati via tutti i senatori che nello spogliatoio facevano sentire troppo la loro voce (Cervone, Carboni, Lanna, Giannini, Cappioli) e le mezze figure che l’anno precedente avevano disputato uno dei peggiori campionati nella storia della Roma. Vennero acquistati giocatori importanti come Cafù e Paulo Sergio, nazionali brasiliani; altri affidabili e di rendimento, come il portiere austriaco Konsel e il cursore Di Francesco; e venne data fiducia ai giovani di talento che si erano messi in luce nella disgraziata stagione 1996-97: Totti e Tommasi.
La squadra venne affidata a Zdenek Zeman, allenatore dalle idee tattiche spregiudicate, licenziato dalla Lazio l’anno prima e per questo assetato di rivincita e desideroso di dimostrare, sulla sponda opposta della città, la validità delle sue teorie. In altre parole in quell’estate del 1997 la squadra venne completamente ridisegnata ed i primi risultati positivi maturati nelle amichevoli estive (in particolare un 2-1 contro l’Inter a fine agosto) e il buon esordio in campionato (3-1 in trasferta ad Empoli) avevano gonfiato di speranze tutto l’ambiente. L’arrivo della Juventus campione in carica stuzzicava le ambizioni di tutti, rappresentando il primo vero banco di prova per una squadra che prometteva bel gioco e risultati dopo dieci anni in cui il primo aveva latitato ed i secondi erano stati piuttosto miseri.

Parcheggiammo la macchina e ci incamminammo giù per la discesa ripida e tortuosa che sbocca in prossimità degli ingressi di tribuna Monte Mario. La tensione cominciava a salire man mano che ci avvicinavamo allo stadio e le persone che ci circondavano crescevano di numero ed avevano la nostra stessa meta. Sciarpe, bandiere, clacson e accenni di cori si dirigevano inevitabilmente ai piedi della collina, dove di lì a poco avremmo assistito a quella che per noi romanisti è la madre di tutte le partite.
Entrammo una ventina di minuti prima dell’inizio dell’incontro. Spalti stracolmi, anche in tribuna si stava seduti a gomiti stretti. Tifo alle stelle, fatto più di insulti agli avversari che di sostegno alla nostra formazione: “Juve merda”, “Bastardo bianconero” e “Juventino ciucciapiselli di tutta quanta la famiglia Agnelli” erano i tre cori che, diversamente scanditi, riempivano l’atmosfera dell’Olimpico e infondevano coraggio forse più a noi tifosi che ai giocatori negli spogliatoi. L’odio per la Juventus accende il tifoso romanista della stessa intensità di cui arde il suo amore per la squadra. La Juventus rappresenta qualcosa che va oltre l’aspetto sportivo: il potere della Fiat, il sopruso, il furto dei campionati, la corruzione si riassumono in quella parola latina di otto lettere che è fumo negli occhi per qualsiasi romanista che voglia definirsi davvero tifoso. Una rivalità che si è acuita nel tempo, a partire dai primi anni ottanta, dall’ormai famoso gol annullato a Turone in quella trasferta del dieci maggio 1981, e ha trovato modo di alimentarsi con diversi episodi nelle stagioni successive. Ogni anno, nel giorno di Roma-Juventus, tutta la città ribolle di questa acrimonia che si esprime nel modo più compiuto all’interno dell’Olimpico.
Dopo i primi sussulti iniziali il match divenne una sorta di partita a scacchi. La Roma cercò più volte di sorprendere gli avversari con verticalizzazioni improvvise che non misero quasi mai davvero in difficoltà la retroguardia avversaria, sufficientemente esperta nel tenere a bada le nostre velleità offensive. Dopo un bel tiro di Totti al volo sul quale Peruzzi fece un grandissimo intervento, le poche occasioni pericolose della partita le produsse la Juventus. Rogerio Wagner, sul quale erano puntati gli occhi e le grandi attese di tutti, fece una partita anonima e venne sostituito, denotando poche caratteristiche positive oltre al fisico da marine. Finì 0-0 non senza una certa delusione: ci aspettavamo di più, nel gioco prima ancora che nel risultato. La Roma dimostrò di essere ancora in fase di assimilazione dei nuovi schemi e, soprattutto, acerba nella gestione degli incontri coi grandi avversari.
Defluimmo lentamente verso l’uscita, facendo al contrario il percorso dell’andata. Tenendola per mano, mi chiedevo se Sara sarebbe rimasta mia per sempre.

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