mercoledì 30 luglio 2008

La tesi

Mi sono laureato il 15 marzo del 1993, nel tipico calderone che diventa la facoltà nelle giornate dedicate alla discussione delle tesi: decine di persone che si aggirano agitate nell’atrio e nei corridoi accompagnate da stuoli di amici e parenti che contribuiscono pesantemente ad innalzare il tasso di entropia generale e di tensione nervosa negli sventurati che devono presentare la loro ultima fatica universitaria. Non ho mai capito che cosa ci sia di interessante nel vedere un ragazzo vestito come un manichino farfugliare le due-tre cose che gli vengono chieste da una congrega di parrucconi aggrappati alle loro sedie quasi come alla loro stessa vita.
Arrivai a tagliare quel traguardo dopo un percorso accademico discreto: nei quattro anni previsti terminai gli esami, mentre impiegai i successivi sei mesi per ultimare l’elaborazione di una tesi compilativa in diritto civile. Mi seguì nella stesura un relatore sinistro e vacuo, il cui compito non era altro che ricevere le copie dei capitoli che stendevo e, dopo una settimana, riconsegnarmele per dire che andavano bene. Non ho mai creduto al fatto che leggesse i miei taglia e incolla, ma in fondo mi stava bene così: prima finivo e prima sarei riuscito a concludere la mia vicenda universitaria che, seppur ampiamente soddisfacente, non rappresentava per me un motivo di vanto particolare. Nella scala gerarchica dei miei valori il primo posto se lo giocavano con fortune alterne le ragazze ed il calcio, mentre il successo all’università si doveva accontentare, nettamente staccato, del terzo gradino del podio. Anche se, detto francamente, delle tre discipline era quella nella quale riuscivo meglio.
La mattina del 15 marzo mi alzai intorno alle otto e feci regolarmente colazione. Ero sorpreso di quanto mi sentissi OK, senza paure particolari. Almeno fino a mezzogiorno. Non so cosa cambiò nel mio organismo, so solo che all’improvviso, semplicemente guardando l’orologio per vedere quanto mancava al pranzo, venni assalito da un panico assurdo. Sentii addosso tutto quello che nei giorni precedenti non avevo mai avvertito e mi passò completamente quella fame che non più tardi di cinque secondi prima mi aveva spinto a guardare l’orologio. L’appuntamento topico era ormai vicino, troppo vicino per pensare che potesse continuare a non fare alcun effetto. Ero molto sorpreso: da una calma eccessiva ad un timore intenso, molto più intenso di quelli provati in precedenza per qualsiasi altro esame. Quel giorno mangiai pochissimo.
Alle 14 ero in piedi davanti all’armadio per indossare la “divisa” da uomo. Uno spezzato con blazer blu e pantaloni grigi, camicia azzurra e cravatta in tinta con fantasia in cachemire. Non amavo quei vestiti, non li ho mai amati. Nemmeno oggi, a distanza di tanto tempo, sono riuscito a liberami da quel fastidio latente. Sarà che è un’imposizione, sarà che non mi sento comodo, sarà che il pantalone largo non mi è mai piaciuto: fatto sta che anche adesso, quando la mattina apro lo sportello dell’armadio per indossare giacca e cravatta, c’è sempre una voce interiore che bisbiglia e mi tenta con una semplice domanda:”Ma perché oggi non esci in jeans e camicia?”. A volte le cedo. Sono quelle giornate in cui ho dormito poco, sono stanco pur non avendo fatto ancora nulla e ho bisogno di darmi coraggio per cominciare la giornata.
Alle 14,30 ero pronto. Mi ricontrollai bene allo specchio: nodo della cravatta a posto, capelli in ordine. Ero pronto a sbarcare in Normandia. La sensazione, più o meno, era quella.
Volli prendere la mia macchina, anche se la feci guidare ad un amico. La tangenziale, alle tre del pomeriggio, era libera. Arrivammo nei pressi dell’università in meno di mezz’ora. Parcheggiammo. Varcammo l’ingresso. Mi sfiorò il pensiero che di lì a qualche ora quei luoghi, che erano stati miei per diversi anni, sarebbero entrati nell’album dei ricordi. Fu un attimo perché il presente riprese con forza il sopravvento. Dovevo entrare in facoltà, salire quelle scale che, in quel momento, mi sembravano molto simili ad un calvario, sapendo che nulla mi avrebbe potuto evitare quel passaggio di fuoco.
La facoltà sembrava una bolgia: centinaia di persone pullulavano tra l’ingresso e i corridoi. Un viavai continuo, tra ragazze che piangevano emozionate e giovani dai movimenti goffi in quei vestiti per loro inusuali. Momenti immortalati dai fotografi di turno, appostati come avvoltoi all’uscita delle aule di discussione delle tesi. Si avvicinavano come se conoscessero da una vita i neodottori e li invitavano, ancora rintronati, a posare sorridenti coi loro genitori. Scene raccapriccianti, alle quali sapevo di dover sottostare anch’io.
L’inizio della mia discussione era previsto per le 16, ma avevo messo in preventivo che l’orario non sarebbe stato quello. Immaginavo uno di quei ritardi cosmici che gli esami degli anni precedenti mi avevano fatto sopportare. In realtà, alle 16,15, una bidella uscì dall’aula e chiamò il mio nome.
Fu come un proiettile alle ginocchia: mi sentii le gambe mancare. Ostentai sicurezza dirigendomi spedito verso la porta ma in realtà quella sensazione di crollo non l’avevo mai provata prima. E mai più la provai in seguito. Ciò nonostante proseguii il mio cammino verso la sedia del candidato che era sistemata proprio al centro dell’aula. Negli scranni alle mie spalle presero posto parenti, amici e qualche estraneo che prendeva appunti. Davanti a me la lunga tavolata della commissione, composta da professori più o meno altezzosi, quasi tutti oltre i cinquanta tranne i relatori. Me la stavo facendo sotto, inutile negarlo. Non fu inutile, invece, reagire alla situazione raccogliendo tutte le nozioni che avevo sparse nei meandri del cervello per rispondere alle domande. Non ricordo bene lo svolgimento dell’interrogazione, so che ci fu un momento in cui puntualizzai con determinazione ad alcune osservazioni sollevate dal presidente della commissione. Andò tutto bene. Quando il presidente disse che la commissione si ritirava per valutare mi alzai e mi diressi verso l’uscita. Avevo finito. Rientrai dopo pochi minuti per sentire il voto finale e stringere le mani ai professori, che mi fecero i loro auguri per un futuro radioso. Sapevo che del mio futuro a loro non interessava niente, ma in quel momento di decompressione mi sembrarono affermazioni sincere.
Statistiche della finale: domande: tre. Tempo di gioco: dieci minuti. Valutazione della tesi: cinque punti su cinque. Pensai che fosse assurdo valutare una tesi in quel modo, ma alla fine che importava? Tutto aveva funzionato bene: ero dottore e chiudevo quella parentesi noiosa della mia vita. Ma in quel preciso istante quella parentesi assumeva un profilo diverso: mi faceva effetto la consapevolezza di aver appena scritto la parola fine ad una stagione durata cinque anni. Tra baci, abbracci e complimenti di parenti e amici che sembravano più contenti di me, il mio sguardo scappò verso il cielo di quel pomeriggio in bilico tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Mi ricordai dei primi mesi, quando l’università mi appariva una montagna troppo alta da scalare. La prima estate di studio, coi libri portati al mare e i pensieri d’amore che riempivano di sé le pagine che leggevo e gli anni a venire. Mi sembrò di rivedere tutto in quel cielo così terso, che calava come un sipario sul primo atto della mia vita.

domenica 27 luglio 2008

Pain passes by, glory is forever

Al JFK è sempre così. Quando sbarchi non puoi pensare di essere già arrivato. Cioè, uscire dall’aeroporto, prendere un taxi al volo e impossessarti della stanza dell’albergo che ti attende dopo nove ore di volo. Dopo l’11 settembre i controlli della dogana sono lunghi e minuziosi: mostri il passaporto all’ufficiale che ti squadra per vedere se la foto corrisponde alla faccia che porti, consegni il foglio verde compilato sull’aereo pieno di domande assurde e poi rilasci le impronte digitali e quelle oculari. Prima di ottemperare a questa minuziosa procedura, però, è necessario fare più di un’ora di fila. Fortunatamente sono insieme ad altri compagni del circolo sportivo coi quali riusciamo a far passare abbastanza velocemente i minuti dell’attesa.
Siamo tutti qui per lo stesso motivo: correre la maratona di New York. Forse la più dura, certamente la più famosa del mondo: è da un anno che la preparo. Tra mille difficoltà: allenamenti infrasettimanali alla fine delle giornate di lavoro, un infortunio muscolare che mi ha bloccato nella fase cruciale della preparazione, il recupero lento ed incerto che ha reso vacillanti le mie previsioni sul buon esito della gara. Ci ho messo tutto me stesso per essere qui: cuore, anima, corpo, cervello, tempo, soldi. Tutto. Quest’anno la maratona è il mio obiettivo, verso cui mi dirigo come una freccia scagliata con la massima precisione.
Finalmente arriviamo all’albergo. New York è sempre affascinante. Quella città che pensi di conoscere già anche se non ci sei mai stato, per via delle centinaia di immagini che di lei si sono già viste in tutti i film girati qui. New York è come una donna a cui tutti fanno la corte perché è bella, ricca, intelligente ed ha sempre qualcosa di nuovo che ti stupisce. Passeggiarne i marciapiedi è un po’ come accarezzarla e farsi prendere per mano, lasciandosi guidare alla scoperta delle sue ricchezze.
Due giorni tipicamente newyorkesi, fatti di metropolitana, taxi, musei e shopping, e finalmente arriva la domenica della gara. Sono due giorni che ti consumano lentamente, vissuti in compagnia di una sottile forma di tensione della quale non riesci a liberarti, che la notte prima della partenza ti costringe a impasticcarti per dormire la miseria di quattro ore. Alle cinque e mezza, quando scendo nella hall, c’è di tutto: gente che correrà col braccio ingessato, chi addirittura con le stampelle. Donne ampiamente soprappeso oltre la cinquantina, ragazzi prosciugati dagli allenamenti pronti ad uscire in canottiera. L’atmosfera di attesa che precede i grandi avvenimenti mi innervosisce: passeggio avanti e indietro per vedere se i miei compagni sono scesi. Alla fine arrivano anche loro: sono le cinque e quarantacinque ed usciamo fuori per prendere posto nei sedili posteriori del pullman.
Ci inoltriamo giù per le strade di Manhattan che è ancora notte: tantissimi pullman parcheggiati sul lato destro della strada, altri ancora che ci precedono e ci seguono. All’improvviso l’autobus costeggia Ground Zero, e il mio sguardo viene catturato in maniera un po’ morbosa. L’area dove sorgevano le Torri Gemelle è ormai solo un enorme cantiere. Qui, tra quattro anni, si leverà al cielo un nuovo prodigio dell’architettura contemporanea, ennesimo monumento al dio denaro di questa città che ondeggia tra l’invincibile voglia di guardare avanti e il doloroso ricordo delle sue ferite. In quello che sembra diventato l’ombelico della città convergono le più disparate sollecitazioni: paura, speranza, tristezza. In me vince la voglia di provare ancora, dalla sommità di un terrazzo panoramico, l’incantevole suggestione dettata dall’incrocio tra le guglie di Manhattan, Staten Island e l’oceano Atlantico.
Usciamo da Manhattan, non capisco bene da dove. Il percorso è lungo e tra le chiacchiere coi compagni, i tunnel ed i ponti non riesco a intendere che strada abbia fatto l’autista. Quando in lontananza avvistiamo il Verrazzano Bridge il sole si è già alzato e, nonostante sia domenica, le strade della città brulicano di vetture in transito. Il pullman procede, continuiamo a non capire dove passerà per portarci a Fort Wadsworth, Staten Island, il primo dei cinque quartieri di New York che toccherà il percorso.
Alla fine ci fermiamo, in coda ad altri pullman: è il momento di scendere. Convergiamo anche noi nel fiume di persone che camminano ordinatamente verso l’entrata dell’area di partenza, enorme e suddivisa in tre diverse zone di accesso. La polizia controlla il contenuto delle nostre borse di plastica, rigorosamente trasparenti. Arriva il momento di dividersi: tre di noi partiranno dalla zona verde, gli altre tre, tra cui io, da quella blu. Abbracci, baci e in bocca al lupo: ci vediamo stasera in albergo. Mancano tre ore alla partenza e non riesco a capire come riusciranno a passare senza stancarmi più della maratona.
Troviamo un piccolo spazio libero sotto uno di questi tendoni. Per fortuna è sull’asfalto, per cui c’è un po’ di umidità in meno. Ci sdraiamo supini, ci rialziamo per poi sederci, parliamo. Sono un novellino, Emanuele e Francesco ne hanno già corse altre di maratone, anche qui a New York, e hanno dei tempi che io, ad oggi, posso solo sognare. Emanuele mi propone di seguirlo per prendere un buon ritmo; Francesco, più realista, giustamente mi disincentiva, invitandomi a riscaldarmi bene e a trovare il mio ritmo di gara per arrivare al traguardo in buone condizioni. “Per te – mi dice - l’importante oggi è arrivare alla fine in buone condizioni. Alla prossima penserai al tempo. Ricordati cosa dicono qui: one race, one pace. Trova il tuo ritmo e poi seguilo. Sono sicuro che ce la farai”.
Adesso manca un’ora alla partenza, così decidiamo di andare a depositare ai camion le nostre borse. Anche se avremmo dovuto farlo prima: c’è una fila spaventosa, soltanto dopo tre quarti d’ora di compressione e qualche spinta riesco finalmente a depositare la mia borsa. Saluto i compagni, che hanno un numero di pettorale più basso del mio, e mi avvio verso la mia zona di partenza. Cammino lentamente nello snodato serpente di persone che si avvicina alla partenza del Verrazzano Bridge.
Ad un certo punto il lento incedere verso la linea di partenza si ferma, e proprio mentre comincio a vedere la sagoma del ponte che si affaccia oltre un recinto alberato ancora verde, esplode il colpo di cannone che da il via agli atleti in prima fila. Un urlo di eccitazione si leva dalla schiera di gente che mi precede: la maratona di New York del 2007 è cominciata!
Comincio a correre all’altezza dei caselli stradali per il pagamento del pedaggio d’accesso al ponte. L’inizio del percorso è tutto in salita e la mia strategia di gara prevede di iniziare molto lentamente, per scaldarmi bene e non rischiare alcun tipo di infortunio muscolare. Mi guardo attorno: ci sono migliaia di persone che mi precedono e che sono alle mie spalle, ognuna che corre col suo ritmo. Affaccio lo sguardo giù dal ponte e vedo una nave che crea giochi d’acqua sul mare. Un sole imprevedibile fa riflettere di luce argentea tutta la baia.
Alla fine del Verrazzano si mette piede a Brooklyn e l’impatto è subito caldissimo: centinaia di persone si accalcano alle transenne poste su entrambi i lati della strada per incitare tutti i partecipanti, dal primo all’ultimo, in un carnevale di cartelli, suoni e colori che mette i brividi. E’ incredibile pensare che stanno riservando la stessa attenzione data al gruppo dei primi anche a noi, che viaggiamo intorno al 30 milesimo posto… Urla, applausi, batti il cinque: non mi perdo niente di questo bagno di folla che, per un momento, mi fa sentire importante e famoso come se fossi una rockstar o un calciatore. “Go, go”, “You look good”, “Forza Italia” sono alcune delle frasi che rimbalzano dai marciapiedi. Si percorre tutta la 4th Avenue in direzione nord, dall’incrocio con la 95° strada fino a Union Street. Ci sono tanti sudamericani, soprattutto peruviani, cileni e brasiliani, qualche argentino. Tantissimi centroamericani. I neri immancabili oltre a qualche turista infiltrato che fa il tifo per i partecipanti della sua nazione. Brooklyn è ospitale, piena di colori che convergono nell’azzurro tenue di questo fresco cielo autunnale. Tanta gente osserva anche dai balconi e dalle finestre delle case. I miei primi chilometri si snodano tra queste strade col sorriso sulle labbra, sempre pronto a ringraziare per un incitamento o un saluto. Uno spettacolo!
Un po’ prima del ponte che collega Brooklyn al Queens si supera il tredicesimo miglio: metà gara è andata. E’ una notevole iniezione di fiducia. Più che pensare alla fatica che avverto mi concentro sul fatto che ho già lasciato dietro di me oltre metà dell’opera. Arrivato sul ponte stabilisco che è il momento di fare un break e dare un po’ di ristoro ai muscoli, per cui decido di andare al passo per dieci minuti e di fare stretching in previsione del famoso momento di crisi che pare attanagliare tutti i maratoneti a ridosso del ventesimo miglio, il fatidico Muro (The Wall). Mentre cammino decido anche di mangiare una delle due barrette energetiche che mi sono portato nel sottile marsupio che mi gira intorno alla vita. Mastico con estrema cura e precisione quello che sembra essere ormai una specie di chewing gum che, a contatto col calore del corpo, si è malamente ammorbidito, onde evitare una fase digestiva che richiami troppo sangue nello stomaco.
Superato il ponte metto piede nel Queens e ricomincio a correre. Inoltrandomi nel nuovo quartiere torno a guardarmi intorno, a vedere la gente per strada ed alle finestre, ad avvicinarmi alle transenne appositamente per battere il cinque a chi me lo vuole dare. Un altro miglio e mezzo ed arriviamo ai piedi del Queensboro Bridge. Questo ponte è inquietante: lungo un chilometro, unisce il Queens a Manhattan (da qui il nome) passando sopra Roosevelt Island. E’ tutto coperto, per cui genera un senso di oppressione che probabilmente ha la sua influenza nell’anticipare il momento della mia crisi. Adesso le gambe sono rigide e mettermi a correre in salita per la prima metà della sua estensione mi sembra una mossa inopportuna, per cui decido di farmela a passo veloce. Quando vedo la fine del ponte e la curva a gomito che immette sulla First Avenue riprendo la corsa.
Lo scorcio che vedo è incredibile: una folla di nuovo numerosissima si accalca sulle transenne e accompagna con una raffica di urla le onde di concorrenti sfornati dal Queensboro Bridge. Tutti incitano, gridano il tuo nome, “you can do it, you can do it” in continuazione; ancora mani tese che cercano la tua. Ecco, adesso ho imboccato la First Avenue: è enorme, larghissima e lunghissima. Non ne vedo la fine e non riesco a contarne le corsie, forse anche perché sono ormai annebbiato dalla fatica. La gamba destra sembra quasi ingessata, mi sembra che da un momento all’altro il quadricipite possa strapparsi. Capisco che è arrivato il momento di crisi, quello che mette tutti in ginocchio, che alcuni non superano. In questi momenti, quando sul fisico non puoi fare affidamento, deve emergere la forza mentale, per cui mantengo la calma, tengo lontano da me qualsiasi pensiero che possa scoraggiarmi o togliermi concentrazione. So che voglio arrivare, che la linea del traguardo è il mio obiettivo, l’unica cosa per la quale sono arrivato fin qui e che niente al mondo potrà impedirmi di arrivare. Male che vada ci arriverò passeggiando, ma devo arrivare. Così rallento il ritmo della corsa ma non mi fermo. So che bisogna avere pazienza e saper aspettare. Quando la tempesta sarà passata, andrò avanti per forza di inerzia. Così hanno detto quelli che ci sono passati, così sarà anche per me.
La 1st Avenue è ancora lunga da finire ma la consapevolezza di aver superato “The Wall” mi rende ottimista. Nello stesso tempo so che manca ancora parecchio al traguardo: dodici chilometri sono pur sempre una distanza considerevole anche se ne ho già fatti più del doppio. Se, da un lato, questa considerazione ha un positivo impatto emotivo, la mia parte razionale sa che, proprio perché il corpo ha già speso molto, non bisogna cedere all’entusiasmo. Mi accorgo che il cervello funziona come un navigatore di bordo: elabora calcoli, misura i segnali della “macchina” e fa accendere le spie se c’è un’emergenza in qualche parte del motore. A suo modo lavora quanto le gambe, la schiena e le braccia. E’ questa la cosa incantevole di questa disciplina: l’interazione costante, necessaria, ineluttabile di mente e corpo, il loro inseguirsi, l’aver bisogno inesorabilmente l’uno dell’altra, il loro venirsi incontro nei momenti difficili. Dopo l’inizio, in cui la freschezza atletica prendeva il sopravvento, e gli ultimi chilometri, dove la forza mentale ha sostenuto l’affaticamento dei muscoli, adesso regna un equilibrio frutto delle due fasi precedenti. Da ora in poi la mia velocità di corsa rimarrà costante fino alla fine.
Sul finire della 1st Avenue la folla ai lati della strada si dirada, lasciando spazio a diversi gruppi musicali che suonano a buon ritmo i loro brani. Giunge il momento di transitare sul Willis Avenue Bridge, un “ponticello” che ci scarica nel Bronx. Lo scenario è più dimesso: le case che fanno da sfondo sono basse e ammaccate, la gente meno numerosa ma piena di entusiasmo. Nonostante la stanchezza mi rimane quel briciolo di lucidità che mi consente di ragionare sul luogo in cui mi trovo: il ritratto della povertà, dell’ignoranza e della violenza che ne hanno fatto i film americani sembrano nascondersi dietro questi avamposti del quartiere più malfamato della Grande Mela. E’ solo un attimo, una fugace distrazione in cui non riesco a scivolare perché il mio obiettivo è ancora lontano e io lo voglio sempre più, in maniera inversamente proporzionale alle energie che lentamente mi abbandonano. Allora stringo i denti, non mollo, continuo a correre. Corro, o forse mi sembra di correre e invece sto barcollando, cercando di dare al mio passo un incedere quanto meno dignitoso. Qui nel Bronx è solo un miglio, giusto per dire che la maratona di New York lambisce tutti i cinque quartieri della città. Politically correct.
Il transito del Madison Avenue Bridge ci riporta a Manhattan. O meglio, Harlem. Uno splendido coro gospel di afroamericani ci da il benvenuto coi suoi canti nati dal dolore. Mi percorre un brivido nel sentire dal vivo, nel bel mezzo della strada, queste voci calde e potenti, le voci dei neri. Una scossa che per qualche centinaio di metri mi fa accelerare il ritmo. Harlem: tipiche case di mattoni rosso sangue dove anche gli U2, nel lontano 1987, vennero a girare il video di “I Still Haven’t Found What I’m Looking For” ripreso in Rattle & Hum.
Al ventiduesimo miglio (adesso i chilometri non riesco più a calcolarli) entriamo al Markus Garvey Memorial Park. Potrebbe sembrare Central Park, ma mi sono documentato e so che prima di arrivarci si passa per questo piccolo parco verde dietro al quale si stagliano alti verso il cielo i grattacieli. Molti, non sapendolo, credono di essere ormai in prossimità del traguardo, ma non è così: mancano ancora circa sette chilometri che dovrei riuscire a percorrere in una cinquantina di minuti. Mi sento come un cacciatore che ha quasi raggiunto la sua preda: sono tentato di pensare che ok, si, ce l’ho fatta, posso cominciare a gioire. E’ una forma di gratificazione che cerco istintivamente, ma riesco a rimanere vigile e a non abbassare la concentrazione. Anni di sport mi hanno insegnato che un risultato si acquisisce solo quando un arbitro fischia o un cronometro si ferma. Per cui torno a raccogliermi sui miei sforzi, sui miei muscoli, sull’andatura. Però l’aria della festa si comincia a respirare: lungo i marciapiedi alberati le urla della gente ondeggiano tra gli ultimi incoraggiamenti e le congratulazioni. “You’re almost there, you’re almost there; great, great! you’re great!” Fisso questi sguardi che sorridono soddisfatti e compiaciuti come se fossero stati loro stessi a compiere l’impresa. All’improvviso ho un impeto di commozione che soffoco immediatamente pensando che non è ancora tempo per festeggiare.
Perciò continuo a correre: corro, corro, corro ancora su e giù per questi saliscendi che mi fanno sbucare finalmente sull’ultimo rettilineo di Central Park South, dove un tripudio di gente continua ad incitare, dove a chi mi chiama per nome ho voglia di regalare un sorriso, un tocco di mano, un pollice alzato perché per un giorno, per cinque ore della mia vita che non riuscirò mai a dimenticare mi hanno fatto sentire importante, di nuovo capace di darmi un obiettivo e di raggiungerlo con tutte le mie risorse, riscoprendo che la più determinante di tutte è la passione. L’ultimo chilometro è un turbinio vorticoso nel quale fatica ed entusiasmo danzano con me verso la fine. E proprio adesso, mentre vorrei accelerare come so di non potere, esplodono nell’aria le note struggenti di colui che negli anni ottanta l’America me la fece immaginare, in un momento catartico che cancella ogni peccato e mi fa sentire davvero nato per correre. Il New Jersey è li davanti a me, a pochi chilometri in linea d’aria, e mai ho avuto la fantasia di pensare che un giorno avrei finito la maratona di New York spinto dalla più bella canzone scritta dal Boss di Asbury Park.

Mario Kempes

Ancora oggi, le rare volte che mi capita di vedere la sua foto su internet o sulle pagine di qualche almanacco per amanti di statistiche, un brivido mi assale.
Il volto di Mario Kempes, immortalato nel grido di gioia che segue i due gol segnati per l’Argentina nella finale del Mundial 78, mi prende sempre come la luce inarrestabile di una giornata di sole, il sole di quell’estate “argentina”. Mario Kempes era un idolo per la sua gente, l’immagine di un eroe moderno dai connotati antichi.
Cavalcava rigoglioso nella tre quarti campo avversaria, completamente avulso e refrattario a qualsiasi logica tattica. L’istinto lo spingeva a percorrere gli spazi di tutto il fronte offensivo, rendendo difficile la definizione di un ruolo nel quale inquadrarlo. Mario Kempes non era un centravanti, non era un’ala, non era un rifinitore. Ed era tutto questo contemporaneamente. Era spinto dal vento che muoveva i suoi lunghi capelli da indiano, che rendeva inarrestabili le sue corse a perdifiato coi calzettoni perennemente abbassati. Il suo sguardo era ruvido e dolce, aggressivo e confortante, intenso e leggero, serio e pronto al sorriso. Se non avesse fatto il calciatore avrebbe potuto essere un cantante rock, o un attore. Era nel suo DNA diventare famoso e raccogliere su di sé l’attenzione delle folle. Lo immagino facilmente che performa un assolo di chitarra elettrica sul palco, che recita la parte dell’eroe coraggioso che si oppone ai potenti in nome dei diseredati: chi, meglio di lui, per impersonare Zorro, Robin Hood o Michael Collins?
Kempes sembrava uscito da un racconto di Osvaldo Soriano: una di quelle figure che raccolgono in sé la magia, le illusioni, le storie ed i sogni di ogni recondito angolo dell’America latina.
Una figura così è nomade per vocazione: dopo la vittoria del Mundial, emigrò in Spagna, a Valencia, dove non riuscì mai ad essere pienamente all’altezza della sua meritata fama. Nei mondiali dell’82 era ancora titolare della nazionale che aveva trascinato al successo quattro anni prima, ma il suo nome era ormai più grande del suo valore: come giocatore la sua stella si spense abbastanza presto.
Appese le scarpe al chiodo, intraprese la carriera di allenatore, senza successo. Qualche anno fa lessi sui giornali della sua storia di investimenti sbagliati, che l’aveva ridotto a chiedere aiuto ai vecchi amici. Per racimolare qualche lira, nel suo vagare gitano, arrivò anche da noi come allenatore di un Catanzaro che, all’epoca, traghettava miseramente nelle serie minori. Ma lui era così, uno zingaro del pallone, fuori dagli schemi ma senza drammi o disperazione, quasi che la buona e la cattiva sorte, una volta sopraggiunte, fossero ugualmente benvenute.
Quanto ci manca Mario Kempes a noi amanti del pallone.