giovedì 10 novembre 2011

Carpi 2011

Per la maratona autunnale quest’anno non sapevamo cosa decidere: New York e Chicago erano da escludere per motivi di budget, ad Amsterdam eravamo già stati nel 2010 mentre Venezia aveva esaurito i pettorali prima del mese di luglio. Io spingevo per una maratona in ottobre perché, con l’ora legale, è possibile allenarsi anche il tardo pomeriggio. Andando più in là (Torino, Palermo, Firenze, tutte a novembre) l’ultimo mese di preparazione avrebbe comportato la necessità di correre al buio, con tutti i disagi che comporta farlo in una grande città. Con questi presupposti il cerchio delle possibili scelte si restringeva molto. Di fatto bisognava scegliere tra Carpi (9 ottobre) e Lago Maggiore (16 ottobre). Certo, maratone non altisonanti ma per quest’anno ci potevamo accontentare di considerare solo l’aspetto sportivo senza pensare anche a quello escursionistico. Considerando che sul Lago Maggiore era la prima volta che veniva organizzata una gara sulla distanza dei 42 chilometri e, soprattutto, che il percorso non era dei più pianeggianti, alla fine la scelta è caduta su Carpi: in pianura, quindi veloce (o meno faticosa, a seconda dei punti di vista) è non troppo avanti come periodo dell’anno. Scelta maturata tardi, nella seconda metà di luglio, quando già sarebbe stato il caso di cominciare ad allungare le percorrenze dei lunghi e a modulare gli allenamenti secondo tabelle di preparazione mirate all’obiettivo finale.Ma poco importava: alla fine eravamo arrivati a decidere. Anche quest’anno, durante l’estate, avremmo avuto in qualche angolo della testa uno spazio occupato del pensiero che, di lì a qualche settimana, avremmo dovuto correre 42 chilometri. E’bello avere un obiettivo da perseguire: raggiungibile e sfidante. Per me la maratona è diventato un obiettivo raggiungibile quattro anni fa. Ogni volta è sfidante perché, in funzione della prestazione precedente, è possibile calibrare un risultato migliore da ottenere. E’ uno sport che non fa sconti: un atleta con un minimo di esperienza alle spalle e di conoscenza del proprio fisico e delle proprie potenzialità, sa a che risultato può ambire e cosa deve fare per raggiungerlo. La performance si costruisce giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, ed alla fine quello che rimane impresso sul cronometro al termine della gara è, al netto degli imprevisti (infortuni, malattie, impedimenti lavorativi o familiari), il risultato di un’equazione quasi matematica derivante dal lavoro svolto nei mesi precedenti. Questo per dire che, appena presa la decisione, la prima cosa da smarcare era quella di stilare un programma di lavoro che, in funzione del tempo disponibile, fosse in grado di ottimizzare il risultato finale. Per la verità, quest’anno di tempo non ce n’era molto: oltre al fatto che la decisione era stata presa tardi, c’erano di mezzo le vacanze estive che, a differenza degli anni precedenti, si sarebbero svolte all’estero in luoghi dove non sarebbe stato facile seguire una tabella di allenamenti. In altre parole, era necessario concentrare in un mese e mezzo la preparazione per rimanere sotto le quattro ore. Di più, per me, sarebbe stato utopistico immaginare.Settembre era andato abbastanza bene: tre allenamenti a settimana, conditi da cross training nei giorni intermedi, e tre lunghi da 26, 34 e ancora 26 chilometri, oltre alla partecipazione ad una mezza maratona dal percorso impegnativo. Insomma, ero riuscito a rispettare la tabella che mi ero preparato da solo e potevo guardare al 9 ottobre con cauto ottimismo: avrei potuto provare ad abbassare il mio personale di 3 ore e 59 minuti, anche se non di molto.Ed eccoci finalmente pronti a partire. Sabato mattina, 8 ottobre, ci diamo appuntamento sotto casa di Francesco, il commercialista della spedizione. Con me e lui Gregg, insegnante di inglese, e Andrea, aitante direttore marketing di una grande multinazionale giapponese. Precisi alle 9, come ogni runner che si rispetti, riempiamo in ogni spazio il bagagliaio della macchina di Andrea e partiamo in direzione A1. La giornata è splendida: cielo terso e tepore primaverile, che le previsioni dicono che si manterranno anche domani. Siamo moderatamente allegri, non incontriamo traffico e chiacchieriamo per tutte le quattro ore di viaggio toccando i più disparati argomenti. Giunti a Carpi, con l’ausilio delle indicazioni raccolte sulle pagine web di Tripadvisor, parcheggiamo la macchina e ci rechiamo in uno dei migliori ristoranti della città. Pranzo divino: prosciutto di Parma gustosissimo, primo, crostata e caffè. Per soli 25 euro. Poi andiamo a ritirare i pettorali, facciamo il check-in in albergo e quindi un sopralluogo nella zona del traguardo, per fortuna a soli 200 metri da dove siamo alloggiati. Passeggiata sotto i portici e cena poco fuori città, ancora abbondante e deliziosa.Siamo così alla mattina della gara. La sveglia suona presto, alle sei, perché i pullman si muovono alle sette per portarci alla partenza di Maranello. Colazione con caffè, succo d’arancia, fette biscottate e marmellata. Si parte. La mattina è ancora tenue, ma l’assenza di nubi e le previsioni metereologiche ci confermano che sarà una buona giornata. All’arrivo dovrebbero esserci 19 gradi, temperatura ottimale per correre. Sul pullman mi rilasso, anche se comincio ad avvertire qualche farfalla nello stomaco, segno inequivocabile che siamo arrivati al momento in cui si deve fare sul serio. A Maranello c’è un grande salone coperto dove si può aspettare riparati l’ora della partenza. Io, Francesco e Andrea occupiamo un angolo vicino al portellone di un’uscita d’emergenza. Ci sediamo per terra e poggiamo le borse. Ho gli adduttori un po’ contratti: nell’ultima settima ho fatto un allenamento di troppo, anche se blando, e probabilmente i muscoli ne hanno risentito. Per ovviare prendo il Bengai e mi cospargo le cosce di crema. Forse esagero, perché sento la pelle bruciare un po’ troppo. Ma almeno partirò ben riscaldato.All’esterno ci sono i bagni chimici. Un ultimo passaggio prima della partenza ci vuole. Esco dal salone con Andrea per fare la fila, lasciando a Gregg, che nel frattempo ci ha raggiunti, l’incombenza di controllare le borse che dovranno essere consegnate prima della partenza, contenenti tutto il materiale che serve per la gara e nelle quali si depositano tuta e giubbotto da indossare all’arrivo. La fila è abbastanza lunga e, soprattutto, non scorre bene. Sono le 8,20 passate quando Andrea esce dalla coda chiedendomi di mantenergli il posto: vuole andare a sistemare la sua borsa presso i camion che le trasporteranno tutte all’arrivo. Io lo farò dopo di lui. Passano due, tre, cinque minuti: la fila è molto lenta e comincio a spazientirmi. Vedo Andrea in lontananza che torna verso me con passo trafelato e sguardo un po’ preoccupato. “Che è successo?” gli chiedo. “Gregg ha consegnato anche la tua borsa. E’ un problema?”E’ un problema?!? Santa la Madonna se è un problema! Nella borsa avevo tutto quello che mi serviva per la gara: maltodestrine, occhiali per il sole, soldi in caso di emergenza. Per non parlare del fatto che avrei dovuto metterci dentro gli indumenti di ricambio, che ora indosso. Sento la lama fredda della disperazione calarmi sulla schiena, ogni singola vertebra. Pazienza per gli occhiali da sole, pazienza se dovrò buttare un vecchio giubbotto e la tuta (oddio, la tuta è nuova e bella, per cui mi darebbe fastidio doverla abbandonare). Ma non posso correre 42 chilometri senza maltodestrine. Vedo le settimane di allenamento bruciate per una stronzata del genere e non riesco a capacitarmene. “Aspetta” mi fa Andrea ben capendo il problema “vado a parlare con quello del camion per vedere se riesce a recuperare la tua borsa”. Lascio la fila e lo seguo di corsa. Arriviamo insieme al camion dove è stata lasciata la mia borsa e cominciamo a chiedere se, tramite il numero del pettorale, è possibile recuperarla. La risposta è inesorabilmente negativa: troppe le sacche che si sono già accumulate, è impossibile avere il tempo per ripescare la mia, considerando anche che le consegne stanno continuando. Riusciamo solo a convincere il responsabile del servizio a mettere da parte la mia tuta e il mio giubbotto con l’accordo che, quando le consegne saranno ultimate, gli addetti cercheranno la mia borsa con calma e ci metteranno dentro gli indumenti. E’ qualcosa.Dopo la disperazione, adesso provo rabbia. Santo Dio, ma come è possibile aver fatto una cazzata del genere? Come ha potuto pensare Gregg di farmi una cortesia a consegnare la borsa quando non poteva non sapere che lì dentro avevo tutto quello che mi serviva? O, quanto meno, dove pensava che avrei messo la roba da indossare dopo l’arrivo? Cerco di calmarmi e razionalizzare la situazione: il balletto disperazione-rabbia non mi porterà da nessuna parte, facendomi solo consumare energie nervose. Devo prendere atto della nuova situazione che si è venuta a creare e affrontarla di conseguenza; capire dove, e come, posso mettere una toppa. La prima cosa che mi viene in mente è quella di cercare dei succedanei per le maltodestrine, la cosa più indispensabile di quelle che non ho a disposizione. Mi guardo intorno: non mi va di chiedere niente a nessuno. Cerco un bar nelle vicinanze e lo individuo a poca distanza dai bagni chimici. Corro dentro con l’idea di prendere dello zucchero ma, una volta entrato, adocchio delle bustine di miele, ancora più indicato sia per componenti nutrizionali che per velocità di assorbimento da parte dell’organismo. Ne sono rimaste due: le afferro velocemente e le metto nei taschini dei pantaloncini. Questo riesce a consolarmi in parte: so che in gara avrò la possibilità di assumere qualcosa di energetico quando la fatica comincerà a farsi sentire. Esco dal bar e non trovo più nessuno dei miei compagni di viaggio. Mancano ormai dieci minuti alla partenza e ognuno sarà andato a prendere la sua posizione. Devo fare altrettanto, per cui mi dirigo verso le griglie dove i concorrenti vengono aggregati in relazione al loro numero di pettorale. La mia dista dalla linea dello start un centinaio di metri. Riesco a vedere davanti a me i palloncini colorati dei pace maker e trovo velocemente quelli arancioni, che daranno il ritmo per chiudere in quattro ore e dietro ai quali cercherò di inserirmi. Sono solo coi miei pensieri, a dire il vero ancora rabbiosi: cerco di convogliare questa energia negativa in uno stimolo a far bene, a superarmi, a dare il massimo per battere lo sgradevole imprevisto. Per fortuna non manca troppo tempo… Ci siamo: sento lo speaker alzare la voce, ecco lo sparo. I runners davanti a me cominciano lentamente a muoversi fino a sciogliersi in una massa fluida che invade le strade di Maranello per abbandonarla nel giro di una decina di minuti. La mia maratona ad handicap è appena cominciata. Il mio primo obiettivo è quello di unirmi ai pace maker delle quattro ore. Li aggancio al terzo chilometro e mi lascio guidare dal loro passo: da ora in poi dovrò stargli sempre dietro, sperando di poterli abbandonare al quarantesimo chilometro per lanciare lo sprint finale. La giornata è esattamente come da previsioni: cielo terso e sole, con un leggero venticello che soffia da nord. L’aria è ancora piuttosto fresca, ma al sole si sta molto bene. Il percorso è piatto e senza asperità attraversa la pianura che risalta di colori. Dopo i primi dieci chilometri immagino di sentir girare le gambe da sole, ma non è così: mi fa fatica tenere il ritmo, seppur lento, dei pace maker, segno che ho gestito male gli allenamenti di quest’ultima settimana. In particolare sento gli adduttori duri ma cerco di non pensarci. Mi concentro sui pace maker e la loro andatura.Anche Gregg sta correndo dietro a loro. Quando mi vede mi saluta e, sentendosi probabilmente in colpa, mi dice subito che Francesco a Andrea gli hanno lasciato una bustina di maltodestrine per me. Lo ringrazio, dicendogli che gliela chiederò intorno al trentesimo chilometro. Intorno al diciassettesimo chilometro entriamo a Modena. Il percorso prevede di attraversare il cortile dell’Accademia Militare, con tanto di tappeto rosso e cadetti in divisa che ci applaudono. Insieme all’arrivo, il momento più emozionante di questa maratona.Fuori Modena ricomincia la traversata della pianura. Ai lati della strada solo due file di alberi circondate da campagne coltivate. I pace maker sono bravi, stanno appresso a tutti i componenti del gruppo, creando allegria e distrazione dalla fatica, dando consigli su come gestire gli sforzi. Al ventiseiesimo chilometro la testa comincia a lamentarsi: l’eccessiva rigidità muscolare delle gambe incrementa l’affaticamento e anticipa le prime crisi di stanchezza. Cerco di non pensarci, di seguire come un segugio i pace maker ma comincia ad essere dura.Al trentaduesimo chilometro sento di aver bisogno di zuccheri. Mi giro verso Gregg, che sta qualche metro dietro di me:”Gregg, puoi darmi la bustina che ti hanno lasciato Andrea e Francesco?”. La replica mi giunge inattesa, con marcato accento americano: ”Ah, io non ho più”. Mi cascano le braccia. Ma come non ho più?!? Vorrei chiedere a Gregg se quella bustina l’ha usata lui, se gli è caduta e non se n’è accorto… Ma mi rendo conto che è inutile e non cambierebbe la situazione. Per fortuna una donna che corre alla mia sinistra sente la conversazione e mi offre una compressa delle sue: ”A me non serve più, io esco al trentatreesimo”. ”Grazie, sei un angelo del cielo” sono le parole che mi sgorgano spontanee dal cuore, tra la stanchezza e i dieci chilometri che ancora mancano all’arrivo. Ed eccoci qua, come ogni anno da un po’ di tempo a questa parte, a correre gli ultimi chilometri di una maratona con l’immane fatica di averne già fatti più di trenta ma di non aver ancora finito. Il cervello comincia a dimenarsi come un cavallo imbizzarrito che bisogna domare per non farsi disarcionare. In fondo una bella distanza è già stata percorsa e in un certo senso ti senti contento per aver fatto già molto. Questo è gratificante ma molto pericoloso, perché spinge a farti cedere. In realtà mancano ancora dieci maledetti, durissimi chilometri che, psicologicamente, pesano molto di più dei trentadue lasciati alle spalle. “D’ora in poi si corre solo con la testa” dice uno dei pace maker per farci concentrare. E’ una battaglia lancinante tra il corpo, che urla di smettere, e la mente, che sa di dover raggiungere un obiettivo. In mezzo ci sono io, l’elaboratore che deve gestire questi due vettori che spingono violentemente in direzioni contrapposte. Perché, mi domando. Perché devo arrivare sempre a questo punto? Perché devo combattere questa lotta? Perché non mi ritiro? Perché non mi accontento di fare gare più brevi? Perché non mi metto a correre come tanti così, giusto per il gusto di farlo, per sentirmi in forma e bruciare qualche caloria? Ecco, il cavallo è completamente fuori controllo. Devo recuperarlo, calmarlo, farlo tacere. Altrimenti mi disarciona, e alla fine non arrivo. Recupero lucidità a fatica, mi concentro sull’andatura. Si, perché lo faccio? So darmi una risposta? So che le risposte sono una e centomila, che ognuno ha quella per sé, che nel tempo può anche cambiare. Tra il cielo limpido e il traguardo di Carpi, non più così lontano, dalla polvere di questa battaglia, che alla fine è un percorso dentro se stessi, comprendo che sono qui per dimostrare che sono uno di quelli che non molla mai. E’ una forma di ripasso periodico, di riconferma delle proprie attitudini. Uno sforzo fisico e mentale che ridona forza quando viene ultimato. Una via verso se stessi.Al trentottesimo chilometro sento il passo di Gregg che non tiene più il ritmo. Al quarantesimo lascio i pace maker e mi lancio nello sprint finale. La piazza di Carpi è sempre più vicina, nell’aria si sentono arrivare le parole dello speaker che annunciano il traguardo. Sento le gambe dure, tirate: controllo il cronometro per capire se sto andando forte o se è solo un’impressione. Effettivamente sto tenendo il ritmo della mezza maratona, per cui ho accelerato davvero. Passo davanti all’albergo, so che mancano pochi metri. Ottanta alla piazza, dove arrivo aumentando ancora l’andatura. Cento al traguardo, dopo il quale finalmente mi fermo e blocco il cronometro. Piego la schiena appoggiando le mani sulle ginocchia, finisco i colpi di tosse dovuti allo sforzo. Ho un po’ di nausea. Cerco una panchina libera dove mettermi per recuperare energie e bere con calma. Finalmente seduto, posso controllare il cronometro: battuto di pochi secondi il record personale. Mi aspettano una bella doccia calda e un pranzo coi fiocchi, ma di questa giornata so che mi resterà dentro l’intensità di queste tre ore e cinquantotto minuti.

venerdì 17 giugno 2011

Memorial

Dieci anni fa, una domenica mattina di metà giugno. A quest’ora ancora stavo nel letto della mia casetta da single. Ero andato a dormire tardi ma, nonostante fossi stanco, mi svegliai verso le nove. Ero agitato, una sottile eccitazione mista ad ansia mi possedeva inesorabilmente. Però mi alzai solo quando squillò il cellulare: era Fetoni, vecchio collega di lavoro, che con la solita aria scanzonata mi diceva:”Ahò, qua a Ponte Milvio ce sta già un sacco de gente. Ho pensato subito a te: lo so che te tira più la Roma della fica!”
“C’hai ragione Alessandro...” Come altro avrei potuto rispondere?

Solita colazione da Mondi fino alle 12,30. Appuntamento con Marco per andare insieme ad occupare il nostro posto da abbonati. Tutti che indossiamo la maglia ufficiale, tutti con una bandiera. L’ingresso all’Olimpico è una cascata di emozioni: sole, prato verdissimo e immenso, colori, cori, attesa: una ansiosissima attesa. E’ l’una ma fatichiamo a farci largo per raggiungere il nostro posto. Troviamo anche gli altri: ci sorridiamo, ci abbracciamo, ci uniamo ai cori assordanti che si levano al cielo come una potentissima preghiera che è anche un grido di battaglia che rimbalza nei sotterranei dello stadio, dove i giocatori sono arrivati da poco. Non possono non sentire l’urlo di passione che, come un fiume, inonda oggi le strade della capitale.

Quando escono dal tunnel per verificare le condizioni del terreno, la potenza dei cori sembra volerli spingere in paradiso. Darei dieci anni di vita per provare quello che stanno provando loro. Ognuno di noi si sente vicino a loro. Ognuno di noi, adesso, vorrebbe essere uno di loro. Noi che amiamo quel rettangolo verde abbagliante, nel quale abbiamo letto tante storie, e tante altre ne leggeremo ancora. Noi che amiamo la Roma, in una splendida follia che ci rapisce da qualunque logica.

Noi che il 17 giugno del 2001 siamo diventati Campioni d’Italia.