venerdì 29 ottobre 2010

Amsterdam

Amsterdam ci accoglie in un pomeriggio che sa d’inverno. Nubi basse, pioggia battente. Freddo. Non siamo abituati, in Italia è ancora quasi estate. Pioggia a parte, per correre è meglio così. Sento che mi manchi, per forza d’abitudine e dolcezza di compagnia: I was born, I was born to be with you. Ricordi? Ce lo cantavano i quattro ragazzi di Dublino al concerto, non più tardi di una settimana fa. Quel pezzo ora mi rimbalza dentro, per qualche minuto ancora, fin quando il taxi ci porta davanti all’albergo.

Ripartiamo subito per andare a ritirare pacco gara e pettorali. Giro della città in taxi, un po’ di traffico da weekend e biciclette. Mi assale un certo disappunto nel capire che l’arrivo della maratona è ben distante dal nostro albergo. Pazienza, in qualche modo si farà. Ma già pianifico cosa dovrò portare nella borsa, come mi dovrò vestire, quali ricambi portare. Lo stadio Olimpico, partenza e arrivo, è quello delle olimpiadi del 1928, appena ristrutturato. Ricorda lo stadio della partita del film Fuga per la Vittoria.

Scappiamo dentro dove sono allestiti gli stand espositivi. Capisco che New York, ma anche Roma, sono un’altra cosa, ma quest’anno va bene Amsterdam. Ritiriamo pacco gara e pettorale, aspettiamo inutilmente che spiova. Usciamo nell’umidità, proviamo a rientrare in albergo usando il tram, che sarà il mezzo da utilizzare domenica dopo l’arrivo perché di taxi qui non si vede neanche l’ombra. Azzecchiamo quello giusto e in mezz’ora siamo di nuovo in stanza. Sulla via del ritorno abbiamo adocchiato un ristorante argentino che solletica il nostro appetito. La carne, stasera, va bene. Ai carboidrati dedicheremo il sabato.
Passeggiata digestiva sulle rive del canale del quartiere a luci rosse. Puttane vere, disponibili, in vetrina. Anche belle. Via vai di turisti, a momenti odore di canne nell’aria, qualche bisbiglio di spacciatori si confonde col rumore dei passi della gente. Risate. Umidità. Torniamo in albergo. La notte è per riposare.

Uno sguardo sommario alla guida della Lonely Planet ci consente di stabilire gli obiettivi turistici del viaggio. Sabato mattina, giornata in cui non bisogna affaticarsi troppo, andiamo al museo di Amsterdam, appena due passi dietro la nostra sistemazione. Dal 1300 ad oggi la storia di una città civile, di un popolo che ha imparato a gestire il mare, a cavalcarne le onde, a manovrare i commerci. Con la lungimiranza di comprendere l’importanza del sociale, il supporto alle fasce deboli della popolazione per un più ordinato e stabile benessere di tutta la città. Da questo concetto nacquero orfanotrofi, fondazioni, attività di sostegno agli anziani. Fino all’invasione tedesca nella seconda guerra mondiale, Anna Frank, la ripresa degli anni successivi, le meraviglie del calcio totale dell’Ajax di Cruijff, i nostri giorni. Bella e brava, Amsterdam.

Pomeriggio a letto in stanza: le gambe devono riposare prima delle fatiche di domani. Un po’ di sonno, TV, Lonely Planet. Stasera si mangia pizza, ma devo risolvere un piccolo problema: trovare un posto dove trasmettano il campionato italiano, la Roma gioca l’anticipo serale. Risolvo alla reception, dove un solerte impiegato mi segnala un ristorante a dieci minuti di cammino dall’hotel, il Satellite Sport Bar. Il nome sembra una garanzia.
Trovato! Mangiamo prima una pizza in un ristorante italiano e poi ci sistemiamo per il dessert davanti ad uno schermo non proprio maxi ma comunque in grado di consentire una buona visione della partita. 2-1 col Genoa, in questo momento di crisi, mi sembra di buon auspicio anche per la gara di domani, mentre i numerosi tifosi del Barcellona festeggiano la loro vittoria in rimonta sul Valencia nella sala attigua.

Al rientro temo di non riuscire ad addormentarmi per la tensione, come mi è capitato sempre nei tre anni precedenti a New York. Ma stavolta sono più rilassato: sotto le coperte e in un attimo cado nell’incoscienza assoluta.

Apro gli occhi un po’ prima della sveglia, fissata per le 6,40. Colazione, abbondante ma non troppo. Ci copriamo e usciamo. Tempo esattamente come da previsioni: molto freddo, poco vento, sole. Un po’ di noia nell’attesa, niente rispetto a New York. E alle 9,30 l’ingresso in pista. Si, perché si parte davvero dalla pista di atletica dello stadio, suddivisi in cinque scaglioni. Musica a tutto volume dagli altoparlanti, cielo terso e, incredibilmente, senza nuvole. Aria di festa. Partenza. Transito dal via e attivo il cronometro, il mio compagno fedele nelle prossime ore. Adocchio i pace maker col palloncino giallo: se non li mollo tra meno di quattro ore sarò di nuovo qui. Usciamo dallo stadio, la gente assiepata alle transenne applaude mentre i top runners partiti prima di tutti già volano sul percorso a venti chilometri all’ora, ciclomotori dalle sembianze umane a zero emissioni.

Ho paura dell’allergia, che mi ha infastidito dall’inizio dell’anno. Confido nell’aria fresca e più pulita di quella di Roma. E nella soluzione fisiologica che ho portato nella cintura che contiene maltodestrine. Si corre per parchi cittadini. Alberi ancora verdi. Rotaie di tram che oggi hanno deviato i loro percorsi abituali. Gente alle finestre, qualche sporadico applauso. Qualcuno incespica e cade, rialzandosi a fatica.

Per diversi chilometri il percorso segue il canale del fiume Amstel. Stretto, controsole. Verde scintillante, tutt’intorno prati a perdita d’occhio. Alla mia destra una splendida villa, solitaria, finestre a giorno. Davanti all’ingresso una fuoriserie che sa di soldi solo a guardarla. Provo a chiedermi chi possa vivere in un posto così, mentre sento le gambe un po’ ingolfate. Sto andando piano, l’andatura lenta mi stanca e mi fa dubitare dell’esito finale. Mi chiedo se non sia il caso di superare i pace maker. Ma siamo già al 22° chilometro e a questo punto penso che sia più ragionevole giocare fino in fondo la strategia del segugio: li pedino fino in fondo, comunque fino a quando le gambe riusciranno a stargli dietro. In teoria, andando piano ora, dovrei risparmiare quelle energie che in passato mi sono sempre venute a mancare nel finale.

Sulla destra, in lontananza nel risalire il corso dell’Amstel, vedo una struttura architettonica moderna. Sportiva. Capisco che si tratta dell’Amsterdam Arena, lo stadio dell’Ajax. Penso che il calcio non ti abbandona mai… Ma adesso è importante che io non abbandoni i pace maker, che non perda di vista i palloncini gialli che rimbalzano una ventina di metri davanti a me. Lasciamo il fiume, siamo intorno al 25° chilometro, comincio a monitorare lo stato delle mie gambe: il crollo, dopo il 30°, è sempre dietro l’angolo. Ai rifornimenti, per non mollare i pace maker, bevo velocemente camminando solo qualche passo e riprendo immediatamente a correre. Li maledico, vorrei riposarmi un po’, vorrei bere più acqua. Ma ho fatto una scommessa e non li mollo: non li farò uscire dal mio campo visivo. Almeno è quello che mi auguro.

Al 32° chilometro prendo l’ultima bustina di maltodestrine. Sapore d’agrumi dolciastri, benzina per i miei muscoli che cominciano a lamentarsi ma tengono un ritmo costante, lasciandomi piacevolmente sorpreso. Temo il calo da un metro all’altro, l’affacciarsi della famosa crisi, l’avvento del terribile muro. Ma quest’anno non è così. 33°, 34°, 35°. Controllo il cronometro, sono a ritmo costante da inizio gara. Il calo non c’è ma ne ho ancora paura. Al 37° passiamo sotto un ponte, la risalita temo che possa tagliarmi le gambe. Invece no, vado avanti, avanti ancora col passo costante, tutta pianura che non mi fa perdere il ritmo. Persone di tutte le età, di tutti i pesi mi si parano davanti senza riuscire a tenere il mio passo. Penso che stavolta ce la posso davvero fare.

Poco prima del 40° rientriamo dentro Vondelpark. D’improvviso sento una voce maschile dietro di me, potente, da tenore. Canta vigorosa. Mi giro a fatica ma non riesco ad individuare il tizio che, dopo 40 chilometri, riesce non dico a parlare ad alta voce, ma addirittura a cantare. Per giunta intonato. Quella melodia mi sembra familiare, presto attenzione alle parole di cui carpisco quelle finali:”…and you’ll never walk alone!”. Capisco… Inno del Liverpool, oggi pomeriggio c’è il derby con l’Everton. Emozionante. Alzo le mani (che fatica) e applaudo: quel tipo se lo merita.

Guardo il cronometro: mancano poco meno di due chilometri all’arrivo e sono tre ore e 49 minuti che corro. Ce la posso fare. Ce la devo fare. Saluto e ringrazio i pace maker, li supero. Se voglio essere sicuro di arrivare sotto le quattro ore non posso permettermi di rischiare niente. In fondo le gambe vanno ancora, tengono il ritmo anche se la fatica ora è maggiore. Devo aggrapparmi a qualcosa per non cedere, qualcosa che mi emozioni, che mi sappia spingere oltre la soglia della stanchezza, che dia al mio cervello un’ultima scarica positiva che mi porti al traguardo. Penso a loro, che pochi giorni fa ho rincontrato nel mio stadio Olimpico, che mi hanno riempito l’anima con le loro canzoni. Penso ai quattro ragazzi di Dublino, ricordandomi che, prevedendo un momento in cui avrei dovuto stringere i denti, mi ero ripromesso di sostenermi ripensando al loro concerto. Ecco, il momento è arrivato: le vostre canzoni mi aiutino, mi diano energia, mi supportino in questo sforzo finale, in questa corsa contro il tempo che non voglio perdere per niente al mondo.

L’impulso parte dal cuore, arriva al cervello, corre verso le gambe. Davanti a me la vista dell’ingresso allo stadio è reale, invitante come una promessa. Provo l’ultimo sprint, senza eccedere per paura di infortunarmi. Corsia esterna della curva, persone superate, rettilineo finale. Ogni sorpasso è una posizione in più in classifica, un secondo in meno sul traguardo. Che arriva. Aspetto a stoppare il cronometro fino a quando ho superato i tappetini con gli strumenti di rilevazione del tempo. “E andiamo!” mi scappa ad alta voce, rabbia e soddisfazione, voglia di celebrare quel 3:59 che da oggi si affianca indelebile al mio nome mentre un gesto grintoso del mio braccio accompagna i miei ultimi metri di corsa che si sciolgono in cammino.

venerdì 8 ottobre 2010

Magnificent

Primavera dell’87. Eravamo giovani, con imminenti traguardi da raggiungere e nuovi mondi da esplorare: l’esame di maturità, l’università, nuovi amici. E poi l’amore, il sesso...

A quei tempi il salone di una palazzina affacciata sul traffico sempre intenso di Corso Francia si trasformava occasionalmente in una piccola sala di registrazione, dove quattro amici sgangherati martellavano canzoni su chitarra, basso e batteria. Prima ancora che ascoltando la radio, o vedendo clip su VideoMusic, fu così che conobbi gli U2. Quando i pomeriggi di aprile languivano nei loro riflessi assolati e la voglia di studiare mi abbandonava in maniera inversamente proporzionale alla necessità di vivere, uscivo di casa e mi dirigevo verso quel posto dove sapevo che, anche senza preavviso, interrompendo l’esecuzione di qualche brano, qualcuno sarebbe venuto ad aprirmi. Mi accomodavo su una poltrona e osservavo, ascoltavo. Mi venivano somministrate dosi massicce di War, October e The Unforgettable Fire, con richiami insistiti di Sunday Bloody Sunday, New Year’s Day e Pride. Quella musica, maldestramente replicata, portava con sé qualcosa di appassionato, profondo e intenso. Qualcosa che si appiccicava addosso e non andava più via.

Quando la Orbis mise in vendita i biglietti per il concerto che gli U2 avrebbero tenuto al Flaminio il 27 maggio, il loro acquisto fu l’inevitabile epilogo di quei giorni di primavera. Ci muovemmo in direzione dello stadio verso le 18,30 e, una volta trovato un parcheggio di fortuna, varcammo i cancelli e occupammo un posto sul prato. L’erba era già stata calpestata a sufficienza per sprigionare il suo tipico profumo di terra umida. Per far tacere la coscienza, nella borsa che portava i panini, avevo messo anche il manuale di storia: non sapendo come passare il tempo, l’ultimo modo per ingannare l’attesa poteva essere quello di ripassare il testo che dovevo studiare per l’esame di maturità. Ovviamente si trattava davvero della soluzione limite, perché ce n’erano di decisamente migliori da praticare, si trattasse dello scouting di belle ragazze che erano nei dintorni o dell’ascolto dei gruppi spalla della serata (i Modena City Ramblers e i Pretenders).

Quando le luci della sera cominciavano ad aver ragione di quel mercoledì, le sagome degli alberi del Joshua Tree National Park apparvero ai lati del palco, che iniziò a vibrare, precedendo di qualche secondo l’ingresso di Bono & C., che attaccarono subito con una versione di Where the Streets Have No Name resa dirompente dalla partecipazione oceanica del pubblico del Flaminio. Lo stadio esplose, un mix devastante di decibel ed energia, un’onda d’urto micidiale che assalì i monti Parioli facendo temere ai suoi abitanti un improbabile terremoto. Io ero lì, membro di un equipaggio che trasportava emozioni di intensità tendente a infinito, ignaro di assistere a un evento che mi sarebbe rimasto dentro per sempre. Un equipaggio che era una cosa sola col suo condottiero, capace di catalizzare le emozioni e le aspettative migliori di una generazione a metà tra il ’68 e il 2000. E quindi Pride, Bad, New Year’s Day, Running to Stand Still, The Unforgettable Fire. Si potrebbe dire, col senno di poi, All That You Can’t Leave Behind…

Negli anni a venire sono andato a vedere i concerti degli U2 ogni volta che sono tornati in Italia: a Milano nel ‘92, di nuovo a Roma nel ‘93, nel ‘97 e nel 2005. Ma è per l’eco di quel 27 maggio dell’87 che ancora oggi compro i biglietti per tornare allo stadio a sentirli cantare. I dischi successivi, pur mantenendo quasi sempre livelli musicali eccellenti, non hanno più raggiunto il tasso epico di The Joshua Tree. Quando domani sera gli U2 saliranno sul palco circolare di questo nuovo Tour, ogni canzone segnerà un parte del cammino dei miei ultimi ventitre anni. Certamente sarà un’emozione, una serie di emozioni, un film a puntate mischiate alla rinfusa. Persone, cose, eventi, luoghi lambiranno come onde imbizzarrite il bagnasciuga della coscienza nella quale rimane, saldo e inamovibile, lo stadio Flaminio in quella sera del 27 maggio del 1987. Un posto magico, incantato, raggiungibile solo attraverso i sentieri dell’anima.
Un posto dove le strade non hanno un nome.

martedì 5 ottobre 2010

Diego Forlan

Nome da astro del football, cognome veneto. Volto da predestinato, perché con quello sguardo avrebbe potuto essere l’eroe di innumerevoli film d’avventura, il tennista con la volèe incrociata sforbiciata dopo il servizio. Uruguagio di Montevideo, icona vincente della squadra perdente di Madrid, Diego Forlan, classe 1979, è stato nominato miglior giocatore del Mondiale in Sudafrica. I parrucconi della Fifa non hanno fatto altro che prendere atto di quanto i campi un po’ rattrappiti dal freddo di Johannesburg e dintorni hanno evidenziato nelle quattro settimane della rassegna più importante per gli amanti del pallone. In un torneo dove le attese erano rivolte verso l’Argentina di Messi, l’Inghilterra di Rooney, il Brasile di Kakà, l’unico riuscito a rubare la scena e ad erigersi come vero protagonista della manifestazione è stato lui, il capitano della nazionale uruguaiana. Superando il magma indistinto della forza del collettivo, delle dichiarazioni dei mister preparate dagli uffici stampa, degli schemi conosciuti da qualsiasi allenatore che livellano i valori mettendo in bilico ogni pronostico, Forlan ha saputo imporsi grazie al talento che ha messo a disposizione dei suoi compagni, diventando il loro condottiero. Di questo giocatore, arrivato all’apice della carriera in età matura, se ne ripercorrono oggi gli inizi quando, ancora ragazzo, sembra che decise di diventare un futbolista per garantire alla sorella, colpita da un grave incidente, le migliori disponibilità economiche per curarsi. Diego, all’epoca, era anche un promettente tennista ed in effetti, a vederlo oggi, gli appassionati della racchetta potrebbero facilmente confonderlo con Vitas Gerulaitis, californiano di origini greche che calcò i campi in terra rossa negli anni settanta. Poi il Manchester United, dove fece la sua parte senza però convincere Alex Ferguson a considerarlo un tassello fondamentale. Infine l’Atletico Madrid di cui è diventato capitano e simbolo, portandolo con una strepitosa doppietta alla vittoria dell’Europa League giusto qualche settimana prima dell’inizio dei Mondiali sudafricani.
Che calciatore è Diego Forlan, il capitano della celeste? Un attaccante completo, capace di spaziare su tutto il fronte offensivo. In nazionale come nell’Atletico Madrid non occupa mai una posizione fissa: esterno destro, trequartista, centravanti, seconda punta in relazione alle esigenze della gara e alle caratteristiche degli avversari, interpreta il ruolo con la massima intelligenza. Capace di smarcarsi, occupare gli spazi giusti, rifinire, dettare il passaggio, tirare in porta da ogni posizione, colpire di testa, calciare le punizioni. Un giocatore di gran cuore, generoso, rispettoso dei compagni meno dotati che gli coprono le spalle, disponibile a raggiungere un obiettivo comune. Quell’obiettivo che da il senso all’esistenza di una squadra e al suo stare insieme. Forlan traduce tutto questo sul campo con la sua chioma bionda, fluente il giusto, che ne accompagna il passo, lo sguardo rapace, la testa alta nei momenti decisivi. In lui si compiono l’attesa dei compagni e la gioia dei connazionali. Talvolta, nell’osservare il suo incedere, viene spontaneo avvicinarlo a Mario Kempes, l’eroe argentino del Mundial del 1978.

mercoledì 7 luglio 2010

Ogni benedetta domenica

Domenica,
quanta dolcezza fai vivere in te.
Voglia di correre, di soffrire,
di scaricare rabbia nella stanchezza del gioco:
voglia di incontrare, tra spettatori ignoti, il viso di persone amate,
di vivere la gioia in un momento di esaltazione.

Così ogni domenica, ad inseguire un obiettivo che si dilata nella costanza,
che mi lega ai ragazzi che mi corrono intorno,
veloci, alcuni aggraziati nei loro movimenti da mezze punte a sostegno dell’attacco,
altri pesanti negli interventi e nelle loro proteste.
In mezzo a loro, con tanti anni più di loro, mi compiaccio della lotta,
mi affanno, spingo, prendo calci restituendo gomitate,
urlo perdendo respiro prezioso.

Così, ogni benedetta domenica, ricevo giovinezza in cambio d’esperienza,
assorbo energia per raccontare storie.
Storie scavate tra vene ingrossate di fatica, centrimetri di pelle cicatrizzati sotto i ferri,
corse senza fine che un giorno finiranno.

Tu, seduta, osservi,
distrattamente lontana, in attesa di quel triplice fischio che non sembra mai arrivare.