venerdì 8 ottobre 2010

Magnificent

Primavera dell’87. Eravamo giovani, con imminenti traguardi da raggiungere e nuovi mondi da esplorare: l’esame di maturità, l’università, nuovi amici. E poi l’amore, il sesso...

A quei tempi il salone di una palazzina affacciata sul traffico sempre intenso di Corso Francia si trasformava occasionalmente in una piccola sala di registrazione, dove quattro amici sgangherati martellavano canzoni su chitarra, basso e batteria. Prima ancora che ascoltando la radio, o vedendo clip su VideoMusic, fu così che conobbi gli U2. Quando i pomeriggi di aprile languivano nei loro riflessi assolati e la voglia di studiare mi abbandonava in maniera inversamente proporzionale alla necessità di vivere, uscivo di casa e mi dirigevo verso quel posto dove sapevo che, anche senza preavviso, interrompendo l’esecuzione di qualche brano, qualcuno sarebbe venuto ad aprirmi. Mi accomodavo su una poltrona e osservavo, ascoltavo. Mi venivano somministrate dosi massicce di War, October e The Unforgettable Fire, con richiami insistiti di Sunday Bloody Sunday, New Year’s Day e Pride. Quella musica, maldestramente replicata, portava con sé qualcosa di appassionato, profondo e intenso. Qualcosa che si appiccicava addosso e non andava più via.

Quando la Orbis mise in vendita i biglietti per il concerto che gli U2 avrebbero tenuto al Flaminio il 27 maggio, il loro acquisto fu l’inevitabile epilogo di quei giorni di primavera. Ci muovemmo in direzione dello stadio verso le 18,30 e, una volta trovato un parcheggio di fortuna, varcammo i cancelli e occupammo un posto sul prato. L’erba era già stata calpestata a sufficienza per sprigionare il suo tipico profumo di terra umida. Per far tacere la coscienza, nella borsa che portava i panini, avevo messo anche il manuale di storia: non sapendo come passare il tempo, l’ultimo modo per ingannare l’attesa poteva essere quello di ripassare il testo che dovevo studiare per l’esame di maturità. Ovviamente si trattava davvero della soluzione limite, perché ce n’erano di decisamente migliori da praticare, si trattasse dello scouting di belle ragazze che erano nei dintorni o dell’ascolto dei gruppi spalla della serata (i Modena City Ramblers e i Pretenders).

Quando le luci della sera cominciavano ad aver ragione di quel mercoledì, le sagome degli alberi del Joshua Tree National Park apparvero ai lati del palco, che iniziò a vibrare, precedendo di qualche secondo l’ingresso di Bono & C., che attaccarono subito con una versione di Where the Streets Have No Name resa dirompente dalla partecipazione oceanica del pubblico del Flaminio. Lo stadio esplose, un mix devastante di decibel ed energia, un’onda d’urto micidiale che assalì i monti Parioli facendo temere ai suoi abitanti un improbabile terremoto. Io ero lì, membro di un equipaggio che trasportava emozioni di intensità tendente a infinito, ignaro di assistere a un evento che mi sarebbe rimasto dentro per sempre. Un equipaggio che era una cosa sola col suo condottiero, capace di catalizzare le emozioni e le aspettative migliori di una generazione a metà tra il ’68 e il 2000. E quindi Pride, Bad, New Year’s Day, Running to Stand Still, The Unforgettable Fire. Si potrebbe dire, col senno di poi, All That You Can’t Leave Behind…

Negli anni a venire sono andato a vedere i concerti degli U2 ogni volta che sono tornati in Italia: a Milano nel ‘92, di nuovo a Roma nel ‘93, nel ‘97 e nel 2005. Ma è per l’eco di quel 27 maggio dell’87 che ancora oggi compro i biglietti per tornare allo stadio a sentirli cantare. I dischi successivi, pur mantenendo quasi sempre livelli musicali eccellenti, non hanno più raggiunto il tasso epico di The Joshua Tree. Quando domani sera gli U2 saliranno sul palco circolare di questo nuovo Tour, ogni canzone segnerà un parte del cammino dei miei ultimi ventitre anni. Certamente sarà un’emozione, una serie di emozioni, un film a puntate mischiate alla rinfusa. Persone, cose, eventi, luoghi lambiranno come onde imbizzarrite il bagnasciuga della coscienza nella quale rimane, saldo e inamovibile, lo stadio Flaminio in quella sera del 27 maggio del 1987. Un posto magico, incantato, raggiungibile solo attraverso i sentieri dell’anima.
Un posto dove le strade non hanno un nome.

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