giovedì 11 settembre 2014

#NewU2Album #SongsofInnocence

http://www.storie.it/musica/u2-arriva-songs-of-innocence-con-la-benedizione-della-apple-ascoltalo-e-guarda-la-presentazione-live/

venerdì 18 aprile 2014

Francia ’98: Maldini padre e figlio, Zidane, il mistero Ronaldo e…

Dopo quattro anni si torna sulla sponda orientale dell’Atlantico, nel cuore della vecchia Europa. La Francia, con una smodata voglia di grandeur calcistica, ospita la sedicesima edizione dei mondiali con una squadra forte, ambiziosa e matura. UN’ITALIA ALL’ALTEZZA. L’Italia di Cesare Maldini, catenacciaro di vecchio stampo e papà del capitano Paolo, ha una rosa più che discreta: la difesa si compone di marcatori rocciosi (Cannavaro e il trentacinquenne Bergomi) e interpreti di classe (Nesta e Paolo Maldini); l’attacco può contare sulla potenza di Vieri e sulla tecnica sopraffina di Del Piero e Roberto Baggio, reduci da un campionato strepitoso. Il centrocampo ha buoni gregari mentre la capacità di costruire gioco è affidata ad Albertini e Di Biagio. Nonostante questo, non siamo tra i favoriti: un po’ per il valore assoluto degli avversari, Brasile e Francia su tutti, un po’ per il gioco esibito dagli azzurri, limitato a schemi elementari che trovano efficacia nei lanci verticali che passano per le posizioni di Di Biagio...

Per leggere tutto il brano:
http://www.storie.it/mundial/francia-98-maldini-padre-e-figlio-zidane-il-mistero-ronaldo-e-giorgiana/
 

lunedì 31 marzo 2014

USA ’94: Kerouac, il Divin Codino e…

Nel frattempo, anche la nazionale è arrivata negli Usa carica di aspettative. Il presidente federale Matarrese ha pronosticato una finale col Brasile. Sacchi, voluto fortemente proprio dal costruttore barese per riproporre con l’Italia il calcio stratosferico del primo Milan berlusconiano, non è ancora riuscito a plasmare appieno il gioco degli azzurri ma conta di poter lavorare bene nei dieci giorni precedenti l’esordio con l’Irlanda. Che avviene alle quattro del pomeriggio del 18 giugno al Giants Stadium di East Rutherford – New Jersey, nel caldo opprimente della East Coast. È sabato e, non essendoci lezioni, posso vedere la partita senza problemi. Scendo nel bar dell’albergo, ordino una Budweiser e prendo posizione. Oltre a me, altre due persone, evidentemente non interessate al calcio, chiacchierano sottovoce dei fatti loro. La gara si mette subito male: dopo appena undici minuti siamo sotto con un tiro da fuori area di Houghton che sorprende Pagliuca fuori dai pali. Immagino una reazione che però è flebile e improduttiva. I carichi di lavoro imposti da Sacchi per arrivare in condizione nella seconda fase del torneo e il caldo debilitante del Giants Stadium tagliano le gambe ai nostri giocatori. Finisce 1-0 per i verdi d’Irlanda. Sono di umore nero: ora per gli azzurri la strada è in salita.

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martedì 25 febbraio 2014

Gli U2 di nuovo on the roof

Per non deludere i fan, in attesa da ormai cinque anni di un nuovo lavoro registrato in studio, Bono e compagni hanno prima rilasciato “Ordinary Love” e, in questo mese, il nuovo singolo “Invisible”.
Il 17 febbraio hanno accompagnato l’esordio del Tonight Show condotto da Jimmy Fallon con una esibizione open air al 71° piano del Rockfeller Building, sede della NBC, in un tramonto newyorkese da brividi, aria pungente e ricordi d’America di quasi trent’anni fa, quando, abbracciato per la prima volta il successo planetario, decisero di registrare il video di “Where the Streets Have No Name” sul tetto di uno stabile di Los Angeles.

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Le notti magiche di Totò Schillaci

I mondiali di Italia ‘90 iniziano oggi e si protrarranno per un mese esatto. I lavori di ristrutturazione o rifacimento degli stadi si sono svolti nella più classica delle tradizioni italiane: spese lievitate in corso d’opera, appalti e subappalti nei quali poter infilare imprese legate ai politici, ritardi con conseguente rush finale per arrivare pronti all’appuntamento, con inevitabile scadimento della qualità dei lavori. Ma alla fine l’8 giugno il paese è pronto per il calcio d’inizio, che verrà dato allo stadio Meazza di Milano tra l’Argentina campione del mondo e i leoni indomabili del Camerun. Gli africani, nella sorpresa generale, picchiando duro per tutta la partita, finita in nove a seguito di due espulsioni, si aggiudicano il match. Per Maradona e compagni non è un buon presagio, dal momento che anche nella partita di apertura del mundial spagnolo, giocata sempre da campioni in carica, persero con lo stesso risultato di 1-0 contro il Belgio e furono eliminati al secondo turno.

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giovedì 10 novembre 2011

Carpi 2011

Per la maratona autunnale quest’anno non sapevamo cosa decidere: New York e Chicago erano da escludere per motivi di budget, ad Amsterdam eravamo già stati nel 2010 mentre Venezia aveva esaurito i pettorali prima del mese di luglio. Io spingevo per una maratona in ottobre perché, con l’ora legale, è possibile allenarsi anche il tardo pomeriggio. Andando più in là (Torino, Palermo, Firenze, tutte a novembre) l’ultimo mese di preparazione avrebbe comportato la necessità di correre al buio, con tutti i disagi che comporta farlo in una grande città. Con questi presupposti il cerchio delle possibili scelte si restringeva molto. Di fatto bisognava scegliere tra Carpi (9 ottobre) e Lago Maggiore (16 ottobre). Certo, maratone non altisonanti ma per quest’anno ci potevamo accontentare di considerare solo l’aspetto sportivo senza pensare anche a quello escursionistico. Considerando che sul Lago Maggiore era la prima volta che veniva organizzata una gara sulla distanza dei 42 chilometri e, soprattutto, che il percorso non era dei più pianeggianti, alla fine la scelta è caduta su Carpi: in pianura, quindi veloce (o meno faticosa, a seconda dei punti di vista) è non troppo avanti come periodo dell’anno. Scelta maturata tardi, nella seconda metà di luglio, quando già sarebbe stato il caso di cominciare ad allungare le percorrenze dei lunghi e a modulare gli allenamenti secondo tabelle di preparazione mirate all’obiettivo finale.Ma poco importava: alla fine eravamo arrivati a decidere. Anche quest’anno, durante l’estate, avremmo avuto in qualche angolo della testa uno spazio occupato del pensiero che, di lì a qualche settimana, avremmo dovuto correre 42 chilometri. E’bello avere un obiettivo da perseguire: raggiungibile e sfidante. Per me la maratona è diventato un obiettivo raggiungibile quattro anni fa. Ogni volta è sfidante perché, in funzione della prestazione precedente, è possibile calibrare un risultato migliore da ottenere. E’ uno sport che non fa sconti: un atleta con un minimo di esperienza alle spalle e di conoscenza del proprio fisico e delle proprie potenzialità, sa a che risultato può ambire e cosa deve fare per raggiungerlo. La performance si costruisce giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, ed alla fine quello che rimane impresso sul cronometro al termine della gara è, al netto degli imprevisti (infortuni, malattie, impedimenti lavorativi o familiari), il risultato di un’equazione quasi matematica derivante dal lavoro svolto nei mesi precedenti. Questo per dire che, appena presa la decisione, la prima cosa da smarcare era quella di stilare un programma di lavoro che, in funzione del tempo disponibile, fosse in grado di ottimizzare il risultato finale. Per la verità, quest’anno di tempo non ce n’era molto: oltre al fatto che la decisione era stata presa tardi, c’erano di mezzo le vacanze estive che, a differenza degli anni precedenti, si sarebbero svolte all’estero in luoghi dove non sarebbe stato facile seguire una tabella di allenamenti. In altre parole, era necessario concentrare in un mese e mezzo la preparazione per rimanere sotto le quattro ore. Di più, per me, sarebbe stato utopistico immaginare.Settembre era andato abbastanza bene: tre allenamenti a settimana, conditi da cross training nei giorni intermedi, e tre lunghi da 26, 34 e ancora 26 chilometri, oltre alla partecipazione ad una mezza maratona dal percorso impegnativo. Insomma, ero riuscito a rispettare la tabella che mi ero preparato da solo e potevo guardare al 9 ottobre con cauto ottimismo: avrei potuto provare ad abbassare il mio personale di 3 ore e 59 minuti, anche se non di molto.Ed eccoci finalmente pronti a partire. Sabato mattina, 8 ottobre, ci diamo appuntamento sotto casa di Francesco, il commercialista della spedizione. Con me e lui Gregg, insegnante di inglese, e Andrea, aitante direttore marketing di una grande multinazionale giapponese. Precisi alle 9, come ogni runner che si rispetti, riempiamo in ogni spazio il bagagliaio della macchina di Andrea e partiamo in direzione A1. La giornata è splendida: cielo terso e tepore primaverile, che le previsioni dicono che si manterranno anche domani. Siamo moderatamente allegri, non incontriamo traffico e chiacchieriamo per tutte le quattro ore di viaggio toccando i più disparati argomenti. Giunti a Carpi, con l’ausilio delle indicazioni raccolte sulle pagine web di Tripadvisor, parcheggiamo la macchina e ci rechiamo in uno dei migliori ristoranti della città. Pranzo divino: prosciutto di Parma gustosissimo, primo, crostata e caffè. Per soli 25 euro. Poi andiamo a ritirare i pettorali, facciamo il check-in in albergo e quindi un sopralluogo nella zona del traguardo, per fortuna a soli 200 metri da dove siamo alloggiati. Passeggiata sotto i portici e cena poco fuori città, ancora abbondante e deliziosa.Siamo così alla mattina della gara. La sveglia suona presto, alle sei, perché i pullman si muovono alle sette per portarci alla partenza di Maranello. Colazione con caffè, succo d’arancia, fette biscottate e marmellata. Si parte. La mattina è ancora tenue, ma l’assenza di nubi e le previsioni metereologiche ci confermano che sarà una buona giornata. All’arrivo dovrebbero esserci 19 gradi, temperatura ottimale per correre. Sul pullman mi rilasso, anche se comincio ad avvertire qualche farfalla nello stomaco, segno inequivocabile che siamo arrivati al momento in cui si deve fare sul serio. A Maranello c’è un grande salone coperto dove si può aspettare riparati l’ora della partenza. Io, Francesco e Andrea occupiamo un angolo vicino al portellone di un’uscita d’emergenza. Ci sediamo per terra e poggiamo le borse. Ho gli adduttori un po’ contratti: nell’ultima settima ho fatto un allenamento di troppo, anche se blando, e probabilmente i muscoli ne hanno risentito. Per ovviare prendo il Bengai e mi cospargo le cosce di crema. Forse esagero, perché sento la pelle bruciare un po’ troppo. Ma almeno partirò ben riscaldato.All’esterno ci sono i bagni chimici. Un ultimo passaggio prima della partenza ci vuole. Esco dal salone con Andrea per fare la fila, lasciando a Gregg, che nel frattempo ci ha raggiunti, l’incombenza di controllare le borse che dovranno essere consegnate prima della partenza, contenenti tutto il materiale che serve per la gara e nelle quali si depositano tuta e giubbotto da indossare all’arrivo. La fila è abbastanza lunga e, soprattutto, non scorre bene. Sono le 8,20 passate quando Andrea esce dalla coda chiedendomi di mantenergli il posto: vuole andare a sistemare la sua borsa presso i camion che le trasporteranno tutte all’arrivo. Io lo farò dopo di lui. Passano due, tre, cinque minuti: la fila è molto lenta e comincio a spazientirmi. Vedo Andrea in lontananza che torna verso me con passo trafelato e sguardo un po’ preoccupato. “Che è successo?” gli chiedo. “Gregg ha consegnato anche la tua borsa. E’ un problema?”E’ un problema?!? Santa la Madonna se è un problema! Nella borsa avevo tutto quello che mi serviva per la gara: maltodestrine, occhiali per il sole, soldi in caso di emergenza. Per non parlare del fatto che avrei dovuto metterci dentro gli indumenti di ricambio, che ora indosso. Sento la lama fredda della disperazione calarmi sulla schiena, ogni singola vertebra. Pazienza per gli occhiali da sole, pazienza se dovrò buttare un vecchio giubbotto e la tuta (oddio, la tuta è nuova e bella, per cui mi darebbe fastidio doverla abbandonare). Ma non posso correre 42 chilometri senza maltodestrine. Vedo le settimane di allenamento bruciate per una stronzata del genere e non riesco a capacitarmene. “Aspetta” mi fa Andrea ben capendo il problema “vado a parlare con quello del camion per vedere se riesce a recuperare la tua borsa”. Lascio la fila e lo seguo di corsa. Arriviamo insieme al camion dove è stata lasciata la mia borsa e cominciamo a chiedere se, tramite il numero del pettorale, è possibile recuperarla. La risposta è inesorabilmente negativa: troppe le sacche che si sono già accumulate, è impossibile avere il tempo per ripescare la mia, considerando anche che le consegne stanno continuando. Riusciamo solo a convincere il responsabile del servizio a mettere da parte la mia tuta e il mio giubbotto con l’accordo che, quando le consegne saranno ultimate, gli addetti cercheranno la mia borsa con calma e ci metteranno dentro gli indumenti. E’ qualcosa.Dopo la disperazione, adesso provo rabbia. Santo Dio, ma come è possibile aver fatto una cazzata del genere? Come ha potuto pensare Gregg di farmi una cortesia a consegnare la borsa quando non poteva non sapere che lì dentro avevo tutto quello che mi serviva? O, quanto meno, dove pensava che avrei messo la roba da indossare dopo l’arrivo? Cerco di calmarmi e razionalizzare la situazione: il balletto disperazione-rabbia non mi porterà da nessuna parte, facendomi solo consumare energie nervose. Devo prendere atto della nuova situazione che si è venuta a creare e affrontarla di conseguenza; capire dove, e come, posso mettere una toppa. La prima cosa che mi viene in mente è quella di cercare dei succedanei per le maltodestrine, la cosa più indispensabile di quelle che non ho a disposizione. Mi guardo intorno: non mi va di chiedere niente a nessuno. Cerco un bar nelle vicinanze e lo individuo a poca distanza dai bagni chimici. Corro dentro con l’idea di prendere dello zucchero ma, una volta entrato, adocchio delle bustine di miele, ancora più indicato sia per componenti nutrizionali che per velocità di assorbimento da parte dell’organismo. Ne sono rimaste due: le afferro velocemente e le metto nei taschini dei pantaloncini. Questo riesce a consolarmi in parte: so che in gara avrò la possibilità di assumere qualcosa di energetico quando la fatica comincerà a farsi sentire. Esco dal bar e non trovo più nessuno dei miei compagni di viaggio. Mancano ormai dieci minuti alla partenza e ognuno sarà andato a prendere la sua posizione. Devo fare altrettanto, per cui mi dirigo verso le griglie dove i concorrenti vengono aggregati in relazione al loro numero di pettorale. La mia dista dalla linea dello start un centinaio di metri. Riesco a vedere davanti a me i palloncini colorati dei pace maker e trovo velocemente quelli arancioni, che daranno il ritmo per chiudere in quattro ore e dietro ai quali cercherò di inserirmi. Sono solo coi miei pensieri, a dire il vero ancora rabbiosi: cerco di convogliare questa energia negativa in uno stimolo a far bene, a superarmi, a dare il massimo per battere lo sgradevole imprevisto. Per fortuna non manca troppo tempo… Ci siamo: sento lo speaker alzare la voce, ecco lo sparo. I runners davanti a me cominciano lentamente a muoversi fino a sciogliersi in una massa fluida che invade le strade di Maranello per abbandonarla nel giro di una decina di minuti. La mia maratona ad handicap è appena cominciata. Il mio primo obiettivo è quello di unirmi ai pace maker delle quattro ore. Li aggancio al terzo chilometro e mi lascio guidare dal loro passo: da ora in poi dovrò stargli sempre dietro, sperando di poterli abbandonare al quarantesimo chilometro per lanciare lo sprint finale. La giornata è esattamente come da previsioni: cielo terso e sole, con un leggero venticello che soffia da nord. L’aria è ancora piuttosto fresca, ma al sole si sta molto bene. Il percorso è piatto e senza asperità attraversa la pianura che risalta di colori. Dopo i primi dieci chilometri immagino di sentir girare le gambe da sole, ma non è così: mi fa fatica tenere il ritmo, seppur lento, dei pace maker, segno che ho gestito male gli allenamenti di quest’ultima settimana. In particolare sento gli adduttori duri ma cerco di non pensarci. Mi concentro sui pace maker e la loro andatura.Anche Gregg sta correndo dietro a loro. Quando mi vede mi saluta e, sentendosi probabilmente in colpa, mi dice subito che Francesco a Andrea gli hanno lasciato una bustina di maltodestrine per me. Lo ringrazio, dicendogli che gliela chiederò intorno al trentesimo chilometro. Intorno al diciassettesimo chilometro entriamo a Modena. Il percorso prevede di attraversare il cortile dell’Accademia Militare, con tanto di tappeto rosso e cadetti in divisa che ci applaudono. Insieme all’arrivo, il momento più emozionante di questa maratona.Fuori Modena ricomincia la traversata della pianura. Ai lati della strada solo due file di alberi circondate da campagne coltivate. I pace maker sono bravi, stanno appresso a tutti i componenti del gruppo, creando allegria e distrazione dalla fatica, dando consigli su come gestire gli sforzi. Al ventiseiesimo chilometro la testa comincia a lamentarsi: l’eccessiva rigidità muscolare delle gambe incrementa l’affaticamento e anticipa le prime crisi di stanchezza. Cerco di non pensarci, di seguire come un segugio i pace maker ma comincia ad essere dura.Al trentaduesimo chilometro sento di aver bisogno di zuccheri. Mi giro verso Gregg, che sta qualche metro dietro di me:”Gregg, puoi darmi la bustina che ti hanno lasciato Andrea e Francesco?”. La replica mi giunge inattesa, con marcato accento americano: ”Ah, io non ho più”. Mi cascano le braccia. Ma come non ho più?!? Vorrei chiedere a Gregg se quella bustina l’ha usata lui, se gli è caduta e non se n’è accorto… Ma mi rendo conto che è inutile e non cambierebbe la situazione. Per fortuna una donna che corre alla mia sinistra sente la conversazione e mi offre una compressa delle sue: ”A me non serve più, io esco al trentatreesimo”. ”Grazie, sei un angelo del cielo” sono le parole che mi sgorgano spontanee dal cuore, tra la stanchezza e i dieci chilometri che ancora mancano all’arrivo. Ed eccoci qua, come ogni anno da un po’ di tempo a questa parte, a correre gli ultimi chilometri di una maratona con l’immane fatica di averne già fatti più di trenta ma di non aver ancora finito. Il cervello comincia a dimenarsi come un cavallo imbizzarrito che bisogna domare per non farsi disarcionare. In fondo una bella distanza è già stata percorsa e in un certo senso ti senti contento per aver fatto già molto. Questo è gratificante ma molto pericoloso, perché spinge a farti cedere. In realtà mancano ancora dieci maledetti, durissimi chilometri che, psicologicamente, pesano molto di più dei trentadue lasciati alle spalle. “D’ora in poi si corre solo con la testa” dice uno dei pace maker per farci concentrare. E’ una battaglia lancinante tra il corpo, che urla di smettere, e la mente, che sa di dover raggiungere un obiettivo. In mezzo ci sono io, l’elaboratore che deve gestire questi due vettori che spingono violentemente in direzioni contrapposte. Perché, mi domando. Perché devo arrivare sempre a questo punto? Perché devo combattere questa lotta? Perché non mi ritiro? Perché non mi accontento di fare gare più brevi? Perché non mi metto a correre come tanti così, giusto per il gusto di farlo, per sentirmi in forma e bruciare qualche caloria? Ecco, il cavallo è completamente fuori controllo. Devo recuperarlo, calmarlo, farlo tacere. Altrimenti mi disarciona, e alla fine non arrivo. Recupero lucidità a fatica, mi concentro sull’andatura. Si, perché lo faccio? So darmi una risposta? So che le risposte sono una e centomila, che ognuno ha quella per sé, che nel tempo può anche cambiare. Tra il cielo limpido e il traguardo di Carpi, non più così lontano, dalla polvere di questa battaglia, che alla fine è un percorso dentro se stessi, comprendo che sono qui per dimostrare che sono uno di quelli che non molla mai. E’ una forma di ripasso periodico, di riconferma delle proprie attitudini. Uno sforzo fisico e mentale che ridona forza quando viene ultimato. Una via verso se stessi.Al trentottesimo chilometro sento il passo di Gregg che non tiene più il ritmo. Al quarantesimo lascio i pace maker e mi lancio nello sprint finale. La piazza di Carpi è sempre più vicina, nell’aria si sentono arrivare le parole dello speaker che annunciano il traguardo. Sento le gambe dure, tirate: controllo il cronometro per capire se sto andando forte o se è solo un’impressione. Effettivamente sto tenendo il ritmo della mezza maratona, per cui ho accelerato davvero. Passo davanti all’albergo, so che mancano pochi metri. Ottanta alla piazza, dove arrivo aumentando ancora l’andatura. Cento al traguardo, dopo il quale finalmente mi fermo e blocco il cronometro. Piego la schiena appoggiando le mani sulle ginocchia, finisco i colpi di tosse dovuti allo sforzo. Ho un po’ di nausea. Cerco una panchina libera dove mettermi per recuperare energie e bere con calma. Finalmente seduto, posso controllare il cronometro: battuto di pochi secondi il record personale. Mi aspettano una bella doccia calda e un pranzo coi fiocchi, ma di questa giornata so che mi resterà dentro l’intensità di queste tre ore e cinquantotto minuti.

venerdì 17 giugno 2011

Memorial

Dieci anni fa, una domenica mattina di metà giugno. A quest’ora ancora stavo nel letto della mia casetta da single. Ero andato a dormire tardi ma, nonostante fossi stanco, mi svegliai verso le nove. Ero agitato, una sottile eccitazione mista ad ansia mi possedeva inesorabilmente. Però mi alzai solo quando squillò il cellulare: era Fetoni, vecchio collega di lavoro, che con la solita aria scanzonata mi diceva:”Ahò, qua a Ponte Milvio ce sta già un sacco de gente. Ho pensato subito a te: lo so che te tira più la Roma della fica!”
“C’hai ragione Alessandro...” Come altro avrei potuto rispondere?

Solita colazione da Mondi fino alle 12,30. Appuntamento con Marco per andare insieme ad occupare il nostro posto da abbonati. Tutti che indossiamo la maglia ufficiale, tutti con una bandiera. L’ingresso all’Olimpico è una cascata di emozioni: sole, prato verdissimo e immenso, colori, cori, attesa: una ansiosissima attesa. E’ l’una ma fatichiamo a farci largo per raggiungere il nostro posto. Troviamo anche gli altri: ci sorridiamo, ci abbracciamo, ci uniamo ai cori assordanti che si levano al cielo come una potentissima preghiera che è anche un grido di battaglia che rimbalza nei sotterranei dello stadio, dove i giocatori sono arrivati da poco. Non possono non sentire l’urlo di passione che, come un fiume, inonda oggi le strade della capitale.

Quando escono dal tunnel per verificare le condizioni del terreno, la potenza dei cori sembra volerli spingere in paradiso. Darei dieci anni di vita per provare quello che stanno provando loro. Ognuno di noi si sente vicino a loro. Ognuno di noi, adesso, vorrebbe essere uno di loro. Noi che amiamo quel rettangolo verde abbagliante, nel quale abbiamo letto tante storie, e tante altre ne leggeremo ancora. Noi che amiamo la Roma, in una splendida follia che ci rapisce da qualunque logica.

Noi che il 17 giugno del 2001 siamo diventati Campioni d’Italia.



venerdì 29 ottobre 2010

Amsterdam

Amsterdam ci accoglie in un pomeriggio che sa d’inverno. Nubi basse, pioggia battente. Freddo. Non siamo abituati, in Italia è ancora quasi estate. Pioggia a parte, per correre è meglio così. Sento che mi manchi, per forza d’abitudine e dolcezza di compagnia: I was born, I was born to be with you. Ricordi? Ce lo cantavano i quattro ragazzi di Dublino al concerto, non più tardi di una settimana fa. Quel pezzo ora mi rimbalza dentro, per qualche minuto ancora, fin quando il taxi ci porta davanti all’albergo.

Ripartiamo subito per andare a ritirare pacco gara e pettorali. Giro della città in taxi, un po’ di traffico da weekend e biciclette. Mi assale un certo disappunto nel capire che l’arrivo della maratona è ben distante dal nostro albergo. Pazienza, in qualche modo si farà. Ma già pianifico cosa dovrò portare nella borsa, come mi dovrò vestire, quali ricambi portare. Lo stadio Olimpico, partenza e arrivo, è quello delle olimpiadi del 1928, appena ristrutturato. Ricorda lo stadio della partita del film Fuga per la Vittoria.

Scappiamo dentro dove sono allestiti gli stand espositivi. Capisco che New York, ma anche Roma, sono un’altra cosa, ma quest’anno va bene Amsterdam. Ritiriamo pacco gara e pettorale, aspettiamo inutilmente che spiova. Usciamo nell’umidità, proviamo a rientrare in albergo usando il tram, che sarà il mezzo da utilizzare domenica dopo l’arrivo perché di taxi qui non si vede neanche l’ombra. Azzecchiamo quello giusto e in mezz’ora siamo di nuovo in stanza. Sulla via del ritorno abbiamo adocchiato un ristorante argentino che solletica il nostro appetito. La carne, stasera, va bene. Ai carboidrati dedicheremo il sabato.
Passeggiata digestiva sulle rive del canale del quartiere a luci rosse. Puttane vere, disponibili, in vetrina. Anche belle. Via vai di turisti, a momenti odore di canne nell’aria, qualche bisbiglio di spacciatori si confonde col rumore dei passi della gente. Risate. Umidità. Torniamo in albergo. La notte è per riposare.

Uno sguardo sommario alla guida della Lonely Planet ci consente di stabilire gli obiettivi turistici del viaggio. Sabato mattina, giornata in cui non bisogna affaticarsi troppo, andiamo al museo di Amsterdam, appena due passi dietro la nostra sistemazione. Dal 1300 ad oggi la storia di una città civile, di un popolo che ha imparato a gestire il mare, a cavalcarne le onde, a manovrare i commerci. Con la lungimiranza di comprendere l’importanza del sociale, il supporto alle fasce deboli della popolazione per un più ordinato e stabile benessere di tutta la città. Da questo concetto nacquero orfanotrofi, fondazioni, attività di sostegno agli anziani. Fino all’invasione tedesca nella seconda guerra mondiale, Anna Frank, la ripresa degli anni successivi, le meraviglie del calcio totale dell’Ajax di Cruijff, i nostri giorni. Bella e brava, Amsterdam.

Pomeriggio a letto in stanza: le gambe devono riposare prima delle fatiche di domani. Un po’ di sonno, TV, Lonely Planet. Stasera si mangia pizza, ma devo risolvere un piccolo problema: trovare un posto dove trasmettano il campionato italiano, la Roma gioca l’anticipo serale. Risolvo alla reception, dove un solerte impiegato mi segnala un ristorante a dieci minuti di cammino dall’hotel, il Satellite Sport Bar. Il nome sembra una garanzia.
Trovato! Mangiamo prima una pizza in un ristorante italiano e poi ci sistemiamo per il dessert davanti ad uno schermo non proprio maxi ma comunque in grado di consentire una buona visione della partita. 2-1 col Genoa, in questo momento di crisi, mi sembra di buon auspicio anche per la gara di domani, mentre i numerosi tifosi del Barcellona festeggiano la loro vittoria in rimonta sul Valencia nella sala attigua.

Al rientro temo di non riuscire ad addormentarmi per la tensione, come mi è capitato sempre nei tre anni precedenti a New York. Ma stavolta sono più rilassato: sotto le coperte e in un attimo cado nell’incoscienza assoluta.

Apro gli occhi un po’ prima della sveglia, fissata per le 6,40. Colazione, abbondante ma non troppo. Ci copriamo e usciamo. Tempo esattamente come da previsioni: molto freddo, poco vento, sole. Un po’ di noia nell’attesa, niente rispetto a New York. E alle 9,30 l’ingresso in pista. Si, perché si parte davvero dalla pista di atletica dello stadio, suddivisi in cinque scaglioni. Musica a tutto volume dagli altoparlanti, cielo terso e, incredibilmente, senza nuvole. Aria di festa. Partenza. Transito dal via e attivo il cronometro, il mio compagno fedele nelle prossime ore. Adocchio i pace maker col palloncino giallo: se non li mollo tra meno di quattro ore sarò di nuovo qui. Usciamo dallo stadio, la gente assiepata alle transenne applaude mentre i top runners partiti prima di tutti già volano sul percorso a venti chilometri all’ora, ciclomotori dalle sembianze umane a zero emissioni.

Ho paura dell’allergia, che mi ha infastidito dall’inizio dell’anno. Confido nell’aria fresca e più pulita di quella di Roma. E nella soluzione fisiologica che ho portato nella cintura che contiene maltodestrine. Si corre per parchi cittadini. Alberi ancora verdi. Rotaie di tram che oggi hanno deviato i loro percorsi abituali. Gente alle finestre, qualche sporadico applauso. Qualcuno incespica e cade, rialzandosi a fatica.

Per diversi chilometri il percorso segue il canale del fiume Amstel. Stretto, controsole. Verde scintillante, tutt’intorno prati a perdita d’occhio. Alla mia destra una splendida villa, solitaria, finestre a giorno. Davanti all’ingresso una fuoriserie che sa di soldi solo a guardarla. Provo a chiedermi chi possa vivere in un posto così, mentre sento le gambe un po’ ingolfate. Sto andando piano, l’andatura lenta mi stanca e mi fa dubitare dell’esito finale. Mi chiedo se non sia il caso di superare i pace maker. Ma siamo già al 22° chilometro e a questo punto penso che sia più ragionevole giocare fino in fondo la strategia del segugio: li pedino fino in fondo, comunque fino a quando le gambe riusciranno a stargli dietro. In teoria, andando piano ora, dovrei risparmiare quelle energie che in passato mi sono sempre venute a mancare nel finale.

Sulla destra, in lontananza nel risalire il corso dell’Amstel, vedo una struttura architettonica moderna. Sportiva. Capisco che si tratta dell’Amsterdam Arena, lo stadio dell’Ajax. Penso che il calcio non ti abbandona mai… Ma adesso è importante che io non abbandoni i pace maker, che non perda di vista i palloncini gialli che rimbalzano una ventina di metri davanti a me. Lasciamo il fiume, siamo intorno al 25° chilometro, comincio a monitorare lo stato delle mie gambe: il crollo, dopo il 30°, è sempre dietro l’angolo. Ai rifornimenti, per non mollare i pace maker, bevo velocemente camminando solo qualche passo e riprendo immediatamente a correre. Li maledico, vorrei riposarmi un po’, vorrei bere più acqua. Ma ho fatto una scommessa e non li mollo: non li farò uscire dal mio campo visivo. Almeno è quello che mi auguro.

Al 32° chilometro prendo l’ultima bustina di maltodestrine. Sapore d’agrumi dolciastri, benzina per i miei muscoli che cominciano a lamentarsi ma tengono un ritmo costante, lasciandomi piacevolmente sorpreso. Temo il calo da un metro all’altro, l’affacciarsi della famosa crisi, l’avvento del terribile muro. Ma quest’anno non è così. 33°, 34°, 35°. Controllo il cronometro, sono a ritmo costante da inizio gara. Il calo non c’è ma ne ho ancora paura. Al 37° passiamo sotto un ponte, la risalita temo che possa tagliarmi le gambe. Invece no, vado avanti, avanti ancora col passo costante, tutta pianura che non mi fa perdere il ritmo. Persone di tutte le età, di tutti i pesi mi si parano davanti senza riuscire a tenere il mio passo. Penso che stavolta ce la posso davvero fare.

Poco prima del 40° rientriamo dentro Vondelpark. D’improvviso sento una voce maschile dietro di me, potente, da tenore. Canta vigorosa. Mi giro a fatica ma non riesco ad individuare il tizio che, dopo 40 chilometri, riesce non dico a parlare ad alta voce, ma addirittura a cantare. Per giunta intonato. Quella melodia mi sembra familiare, presto attenzione alle parole di cui carpisco quelle finali:”…and you’ll never walk alone!”. Capisco… Inno del Liverpool, oggi pomeriggio c’è il derby con l’Everton. Emozionante. Alzo le mani (che fatica) e applaudo: quel tipo se lo merita.

Guardo il cronometro: mancano poco meno di due chilometri all’arrivo e sono tre ore e 49 minuti che corro. Ce la posso fare. Ce la devo fare. Saluto e ringrazio i pace maker, li supero. Se voglio essere sicuro di arrivare sotto le quattro ore non posso permettermi di rischiare niente. In fondo le gambe vanno ancora, tengono il ritmo anche se la fatica ora è maggiore. Devo aggrapparmi a qualcosa per non cedere, qualcosa che mi emozioni, che mi sappia spingere oltre la soglia della stanchezza, che dia al mio cervello un’ultima scarica positiva che mi porti al traguardo. Penso a loro, che pochi giorni fa ho rincontrato nel mio stadio Olimpico, che mi hanno riempito l’anima con le loro canzoni. Penso ai quattro ragazzi di Dublino, ricordandomi che, prevedendo un momento in cui avrei dovuto stringere i denti, mi ero ripromesso di sostenermi ripensando al loro concerto. Ecco, il momento è arrivato: le vostre canzoni mi aiutino, mi diano energia, mi supportino in questo sforzo finale, in questa corsa contro il tempo che non voglio perdere per niente al mondo.

L’impulso parte dal cuore, arriva al cervello, corre verso le gambe. Davanti a me la vista dell’ingresso allo stadio è reale, invitante come una promessa. Provo l’ultimo sprint, senza eccedere per paura di infortunarmi. Corsia esterna della curva, persone superate, rettilineo finale. Ogni sorpasso è una posizione in più in classifica, un secondo in meno sul traguardo. Che arriva. Aspetto a stoppare il cronometro fino a quando ho superato i tappetini con gli strumenti di rilevazione del tempo. “E andiamo!” mi scappa ad alta voce, rabbia e soddisfazione, voglia di celebrare quel 3:59 che da oggi si affianca indelebile al mio nome mentre un gesto grintoso del mio braccio accompagna i miei ultimi metri di corsa che si sciolgono in cammino.

venerdì 8 ottobre 2010

Magnificent

Primavera dell’87. Eravamo giovani, con imminenti traguardi da raggiungere e nuovi mondi da esplorare: l’esame di maturità, l’università, nuovi amici. E poi l’amore, il sesso...

A quei tempi il salone di una palazzina affacciata sul traffico sempre intenso di Corso Francia si trasformava occasionalmente in una piccola sala di registrazione, dove quattro amici sgangherati martellavano canzoni su chitarra, basso e batteria. Prima ancora che ascoltando la radio, o vedendo clip su VideoMusic, fu così che conobbi gli U2. Quando i pomeriggi di aprile languivano nei loro riflessi assolati e la voglia di studiare mi abbandonava in maniera inversamente proporzionale alla necessità di vivere, uscivo di casa e mi dirigevo verso quel posto dove sapevo che, anche senza preavviso, interrompendo l’esecuzione di qualche brano, qualcuno sarebbe venuto ad aprirmi. Mi accomodavo su una poltrona e osservavo, ascoltavo. Mi venivano somministrate dosi massicce di War, October e The Unforgettable Fire, con richiami insistiti di Sunday Bloody Sunday, New Year’s Day e Pride. Quella musica, maldestramente replicata, portava con sé qualcosa di appassionato, profondo e intenso. Qualcosa che si appiccicava addosso e non andava più via.

Quando la Orbis mise in vendita i biglietti per il concerto che gli U2 avrebbero tenuto al Flaminio il 27 maggio, il loro acquisto fu l’inevitabile epilogo di quei giorni di primavera. Ci muovemmo in direzione dello stadio verso le 18,30 e, una volta trovato un parcheggio di fortuna, varcammo i cancelli e occupammo un posto sul prato. L’erba era già stata calpestata a sufficienza per sprigionare il suo tipico profumo di terra umida. Per far tacere la coscienza, nella borsa che portava i panini, avevo messo anche il manuale di storia: non sapendo come passare il tempo, l’ultimo modo per ingannare l’attesa poteva essere quello di ripassare il testo che dovevo studiare per l’esame di maturità. Ovviamente si trattava davvero della soluzione limite, perché ce n’erano di decisamente migliori da praticare, si trattasse dello scouting di belle ragazze che erano nei dintorni o dell’ascolto dei gruppi spalla della serata (i Modena City Ramblers e i Pretenders).

Quando le luci della sera cominciavano ad aver ragione di quel mercoledì, le sagome degli alberi del Joshua Tree National Park apparvero ai lati del palco, che iniziò a vibrare, precedendo di qualche secondo l’ingresso di Bono & C., che attaccarono subito con una versione di Where the Streets Have No Name resa dirompente dalla partecipazione oceanica del pubblico del Flaminio. Lo stadio esplose, un mix devastante di decibel ed energia, un’onda d’urto micidiale che assalì i monti Parioli facendo temere ai suoi abitanti un improbabile terremoto. Io ero lì, membro di un equipaggio che trasportava emozioni di intensità tendente a infinito, ignaro di assistere a un evento che mi sarebbe rimasto dentro per sempre. Un equipaggio che era una cosa sola col suo condottiero, capace di catalizzare le emozioni e le aspettative migliori di una generazione a metà tra il ’68 e il 2000. E quindi Pride, Bad, New Year’s Day, Running to Stand Still, The Unforgettable Fire. Si potrebbe dire, col senno di poi, All That You Can’t Leave Behind…

Negli anni a venire sono andato a vedere i concerti degli U2 ogni volta che sono tornati in Italia: a Milano nel ‘92, di nuovo a Roma nel ‘93, nel ‘97 e nel 2005. Ma è per l’eco di quel 27 maggio dell’87 che ancora oggi compro i biglietti per tornare allo stadio a sentirli cantare. I dischi successivi, pur mantenendo quasi sempre livelli musicali eccellenti, non hanno più raggiunto il tasso epico di The Joshua Tree. Quando domani sera gli U2 saliranno sul palco circolare di questo nuovo Tour, ogni canzone segnerà un parte del cammino dei miei ultimi ventitre anni. Certamente sarà un’emozione, una serie di emozioni, un film a puntate mischiate alla rinfusa. Persone, cose, eventi, luoghi lambiranno come onde imbizzarrite il bagnasciuga della coscienza nella quale rimane, saldo e inamovibile, lo stadio Flaminio in quella sera del 27 maggio del 1987. Un posto magico, incantato, raggiungibile solo attraverso i sentieri dell’anima.
Un posto dove le strade non hanno un nome.

martedì 5 ottobre 2010

Diego Forlan

Nome da astro del football, cognome veneto. Volto da predestinato, perché con quello sguardo avrebbe potuto essere l’eroe di innumerevoli film d’avventura, il tennista con la volèe incrociata sforbiciata dopo il servizio. Uruguagio di Montevideo, icona vincente della squadra perdente di Madrid, Diego Forlan, classe 1979, è stato nominato miglior giocatore del Mondiale in Sudafrica. I parrucconi della Fifa non hanno fatto altro che prendere atto di quanto i campi un po’ rattrappiti dal freddo di Johannesburg e dintorni hanno evidenziato nelle quattro settimane della rassegna più importante per gli amanti del pallone. In un torneo dove le attese erano rivolte verso l’Argentina di Messi, l’Inghilterra di Rooney, il Brasile di Kakà, l’unico riuscito a rubare la scena e ad erigersi come vero protagonista della manifestazione è stato lui, il capitano della nazionale uruguaiana. Superando il magma indistinto della forza del collettivo, delle dichiarazioni dei mister preparate dagli uffici stampa, degli schemi conosciuti da qualsiasi allenatore che livellano i valori mettendo in bilico ogni pronostico, Forlan ha saputo imporsi grazie al talento che ha messo a disposizione dei suoi compagni, diventando il loro condottiero. Di questo giocatore, arrivato all’apice della carriera in età matura, se ne ripercorrono oggi gli inizi quando, ancora ragazzo, sembra che decise di diventare un futbolista per garantire alla sorella, colpita da un grave incidente, le migliori disponibilità economiche per curarsi. Diego, all’epoca, era anche un promettente tennista ed in effetti, a vederlo oggi, gli appassionati della racchetta potrebbero facilmente confonderlo con Vitas Gerulaitis, californiano di origini greche che calcò i campi in terra rossa negli anni settanta. Poi il Manchester United, dove fece la sua parte senza però convincere Alex Ferguson a considerarlo un tassello fondamentale. Infine l’Atletico Madrid di cui è diventato capitano e simbolo, portandolo con una strepitosa doppietta alla vittoria dell’Europa League giusto qualche settimana prima dell’inizio dei Mondiali sudafricani.
Che calciatore è Diego Forlan, il capitano della celeste? Un attaccante completo, capace di spaziare su tutto il fronte offensivo. In nazionale come nell’Atletico Madrid non occupa mai una posizione fissa: esterno destro, trequartista, centravanti, seconda punta in relazione alle esigenze della gara e alle caratteristiche degli avversari, interpreta il ruolo con la massima intelligenza. Capace di smarcarsi, occupare gli spazi giusti, rifinire, dettare il passaggio, tirare in porta da ogni posizione, colpire di testa, calciare le punizioni. Un giocatore di gran cuore, generoso, rispettoso dei compagni meno dotati che gli coprono le spalle, disponibile a raggiungere un obiettivo comune. Quell’obiettivo che da il senso all’esistenza di una squadra e al suo stare insieme. Forlan traduce tutto questo sul campo con la sua chioma bionda, fluente il giusto, che ne accompagna il passo, lo sguardo rapace, la testa alta nei momenti decisivi. In lui si compiono l’attesa dei compagni e la gioia dei connazionali. Talvolta, nell’osservare il suo incedere, viene spontaneo avvicinarlo a Mario Kempes, l’eroe argentino del Mundial del 1978.

mercoledì 7 luglio 2010

Ogni benedetta domenica

Domenica,
quanta dolcezza fai vivere in te.
Voglia di correre, di soffrire,
di scaricare rabbia nella stanchezza del gioco:
voglia di incontrare, tra spettatori ignoti, il viso di persone amate,
di vivere la gioia in un momento di esaltazione.

Così ogni domenica, ad inseguire un obiettivo che si dilata nella costanza,
che mi lega ai ragazzi che mi corrono intorno,
veloci, alcuni aggraziati nei loro movimenti da mezze punte a sostegno dell’attacco,
altri pesanti negli interventi e nelle loro proteste.
In mezzo a loro, con tanti anni più di loro, mi compiaccio della lotta,
mi affanno, spingo, prendo calci restituendo gomitate,
urlo perdendo respiro prezioso.

Così, ogni benedetta domenica, ricevo giovinezza in cambio d’esperienza,
assorbo energia per raccontare storie.
Storie scavate tra vene ingrossate di fatica, centrimetri di pelle cicatrizzati sotto i ferri,
corse senza fine che un giorno finiranno.

Tu, seduta, osservi,
distrattamente lontana, in attesa di quel triplice fischio che non sembra mai arrivare.

lunedì 16 novembre 2009

New year's day

Capodanno 2000: il millennium bug aleggia sull´umanità, antesignano delle pandemie virali del ventunesimo secolo. La minaccia dell´azzeramento dei dati delle nostre memorie, ormai affidate in piena sicurezza solo ai computer, non mi impedisce di organizzare un capodanno come si deve. Destinazione: Monaco di Baviera. Obiettivo: Eva Heinze.
Conosciuta in un weekend di metà ottobre, Eva mi ronza in mente da due mesi, nei quali sono faticosamente riuscito ad instaurare un intreccio di comunicazioni via email che, oltre a migliorare la mia padronanza della lingua inglese, mi hanno portato ad organizzare questo capodanno oltralpe. Da quel sabato notte in discoteca, Eva danza come un capriolo lontano sulle cime dei miei desideri. Alta, bionda, sinuosa, simile ad un´amazzone volteggia nella mia posta elettronica come una benedizione di luce negli affanni della giornata.
A fine dicembre parto. Per stare quattro giorni a Monaco carico la macchina fino ad appiattire le sospensioni: tuta da sci per eventuali escursioni sulle piste, maglioni pesanti, scarpe, scarponi, scarpini da calcio ("If you like, my friends will organise a football match on New Year´s Day" mi aveva comunicato in una delle nostre corrispondenze elettroniche), camicie, pantaloni eleganti e sportivi per essere pronti a qualsiasi invito. Nove ore da casello a casello, ripassando la storia del rock dagli anni settanta ad oggi.
L´appuntamento è in Marienplatz sotto il balcone dove i giocatori del Bayern Munchen "greet the people after winning the Bundesliga" mi aveva scritto Eva nell´ultima email. Lascio la macchina e mi avvio a piedi verso il luogo indicato: Monaco mi appare bellissima sotto il manto bianco della neve caduta nella settimana di Natale. Devo inforcare gli occhiali da sole per evitare il riverbero di un cielo blu cobalto che pensavo fosse solo un´invenzione delle cartoline per i turisti di passaggio. So che i tedeschi sono puntuali, per cui mi avvicino a passo spedito verso il balcone. Eva è lì che mi aspetta e appena mi riconosce in lontananza sorride e mi saluta agitando verso l´alto la mano destra.
"Hi Paolo, this is my boyfriend, Luca."
"Ciao Paolo! Finalmente un italiano con cui scambiare due chiacchiere come si deve."

giovedì 18 giugno 2009

Una passeggiata lunga vent'anni

“Ho percorso centinaia di chilometri, ho corso per le strade, solo per stare con te. In questo giorno d’estate che non sconta i gradi mi ritrovo qui sul lungomare di Anzio, perso nelle parole che cancellano il nostro passato ed inebriano il presente di profumi e di futuro. Il vento di questo mar Tirreno scompiglia i tuoi capelli e da sfogo ai miei pensieri dipanati in un turbinio di immagini sfalsate che abbraccia i soldati americani e le passeggiate in bermuda di Bruno Conti nell’estate dell’82. L’asfalto brucia di passi e pulsazioni. Abbasso gli occhi sulle mie gambe levigate dagli allenamenti per far finta di non guardar le tue, così sottili e proporzionate da darmi un’idea per certi versi forse oscena di ciò che è paradiso.”
Sono i versi del mio passato che scovo oggi in un recondito angolo del ripostiglio nel quale non mi affacciavo più da tempo. Ritrovati in questo pomeriggio di fine marzo che mi ha casualmente riaccompagnato sul lungomare di Anzio dopo più di vent’anni. Panchine graffiate di salsedine, due piccoli bar appena riaperti, cabine balneari ancora da sistemare prima dell’arrivo dell’estate, gente che passeggia nei cappotti aperti. Qualcosa di acerbo e inebriante si esprime nel volo dei gabbiani che volteggiano a pelo d’acqua fin sopra i lampioni di strada. Io ero, io sono. E qualcosa che unisce: una passeggiata lunga vent’anni. Più lunga, più aspra di questo lungomare dove i bambini si inseguono in un acrobatico slalom fra i passanti e le biciclette dei vigili urbani in uscita per pattugliare il nulla che c’è tra il cielo e il mare. Un ristorante ormai in chiusura rigetta per strada gli ultimi avventori, sazi e rimbalzanti verso il bar più vicino alla ricerca di un digestivo. Uomini per lo più anziani accostano l’orecchio a moderne radioline per seguire tutto il calcio minuto per minuto, sopportando innervositi i rimbrotti delle mogli non ancora rassegnate. Le palme scuotono di tanto in tanto le loro alte chiome che proiettano gli sguardi verso immaginifiche mete esotiche. Quella scogliera in lontananza un giorno nascose e scoprì il paradiso.

Questo testo è stato pubblicato su Italia Gratis 2009-2010 - Leconte editore - 2009

venerdì 24 aprile 2009

Promenade

Alle due e mezza di notte, Roma era un deserto, nuda nel caldo opprimente. Quasi tutti i suoi abitanti si agitavano senza posa tra lenzuola appiccicose, e quelli che non riuscivano a dormire bestemmiavano contro l’afa soffocante della notte che nessun ponentino veniva a mitigare. L’afa del mese di agosto sciroppava l’aria. Anche la luna si nascondeva, sudata. Lampioni di luce gialla esaltando con il loro colore il calore che saliva dall’asfalto, davano l’illusione di lasciare in ombra le saracinesche delle botteghe chiuse. Marco, sul balcone, sbuffò l’ultima boccata di fumo, appoggiò la cicca sulla ringhiera e come faceva da bambino con le palline sulla spiaggia, mollò una schicchera. Una microscopica stella cadente volò dal terzo piano, proiettandosi verso il giardino del condomino del pian terreno con una traiettoria a spirale. “Up through the spiral staircase to the higher ground”: a Marco vennero in mente quelle parole, i versi finali di una canzone degli U2 di cui ora non ricordava il nome, che avevano accompagnato le sue giornate vent’anni addietro. Non riusciva proprio a ricordare come si intitolasse quella canzone, ed a pensarci bene la sua sigaretta aveva percorso quella spirale immaginaria verso il basso, non verso l’alto. Dopo le parole, però, anche le note cominciarono a vibrare nella sua mente senza lasciargli scampo e così, una dopo l’altra, parole e note riemersero. Nemmeno Marco sapeva da dove. In quei vent’anni erano successe tante cose ed oggi, a quarant’anni, col lavoro che martellava a ritmi inumani per tutta la settimana, Marco si rendeva conto di aver perso molta della sensibilità di un tempo, quella sensibilità che gli consentiva di affezionarsi alle cose che gli davano emozioni e di ricordarle nitidamente. Oggi era tutto così diverso, e la vita gli volava via dalle mani a velocità siderali, senza lasciargli un attimo per fermarsi a pensare, per capire dove stava andando e se la direzione era voluta o semplicemente frutto di un moto inerziale di cui aveva perso ogni consapevolezza e capacità di indirizzo.
“Oh, tell me, Cherry dance with me, turn me around tonight, up through the spiral staircase to the higher ground”: ecco, era quello il verso completo. Cominciò a canticchiarlo così, nell’umidità appiccicosa di quella serata che non ne voleva sapere di andare a dormire. Fece per accendere un’altra sigaretta ma lasciò perdere. Rientrò in casa e accese le luci del salone. Si diresse verso la libreria dove cercò quasi con ansia quel libro che aveva comprato il primo anno d’università, dove c’erano tutte le canzoni degli U2 con testo tradotto e note di approfondimento. Per qualche attimo temette di non averlo più, di averlo perduto in uno dei traslochi che aveva fatto negli anni precedenti. Ma continuò a cercare, e alla fine lo scovò arroccato dietro agli ultimi libri che aveva acquistato che trattavano della gestione dello stress nel mondo della competizione globale. “Quante cazzate” pensò, appropriandosi con soddisfazione dell’oggetto della sua ricerca. Copertina verde, foto dei quattro di Dublino ancora ragazzi, sfondo desertico (probabilmente il sud della California), duecentocinquanta pagine leggermente ingiallite. Marco si domandò quando fosse stata l’ultima volta che lo aveva aperto. Non seppe darsi una risposta, ma in fondo importava poco. Era morbosamente attratto dall’idea di essere in contatto con quel frammento del suo passato remoto. Sapeva che sarebbe bastato cominciare a sfogliare qualche pagina per riappropriarsi di immagini che il tempo aveva macchiato d’oblio e che ora gli avrebbero riaperto l’anima. Era eccitato, quasi frenetico nel rileggere quei testi. Non provava stanchezza, né tanto meno sentiva più il caldo. Sapeva che la mattina seguente, svegliandosi alle sette, avrebbe maledetto quella notte. Ma non gli importava niente. Quel libro era parte di lui. Li dentro c’erano le sue radici, il suo DNA emozionale, per certi versi la sua educazione etica e sentimentale.
“Cherry dance with me, turn me around tonight”: c’era qualcosa di estremo, dolcemente inesorabile in quelle parole. Ma la canzone non l’aveva ancora trovata, forse perché non aveva fretta di incontrarla. Gustava quelle pagine ripassando testi e commenti che un tempo conosceva a memoria, incuriosito da quelle sottolineature a matita che intendevano dare maggior forza ai contenuti. Leggeva con avidità i testi di I will follow, A day without me, Gloria, October, New year’s day, Party girl, The unforgettable fire: album particolare, The unforgettable fire. Le sue atmosfere portavano qualcosa di quella notte, dall’idea del fuoco indimenticabile al cielo dell’estate indiana. E proprio nel mezzo delle pagine di The unforgettable fire trovò quelle parole: “Oh, tell me, Cherry dance with me, turn me around tonight, up through the spiral staircase to the higher ground”. L’aveva trovata! Promenade era il titolo della canzone, e chi se lo ricordava che esistesse? Lesse tutto il testo, spulciando anche tra le note a piè pagina per capire il significato autentico di quel versetto che ormai da più di mezz’ora ballava con lui.
“E’ un’espressione usata quando si muore: qualcuno viene a prenderti e ti porta in cielo attraverso una scala a forma di spirale”. Marco soprassalì: il buio, il caldo, la stanchezza che cominciava ad affiorare. Rilesse una seconda volta quella nota, una terza e poi un’altra ancora. Il volto di suo padre era lì, al suo fianco, nel letto della casa dove aveva sempre riposato dopo i suoi innumerevoli viaggi nel giorno in cui partiva per quello dal quale non sarebbe più tornato. I suoi occhi gli stavano dando l’ultimo saluto, l’ultimo generoso incoraggiamento prima di lasciarlo. Le parole che aveva ricordato quella notte così all’improvviso, emerse inconsciamente, gli sembrarono un saluto che veniva dal cielo. In quel momento desiderò con tutte le sue forze che qualcuno gli riportasse suo padre, che percorresse quelle scale a forma di spirale verso il basso, magari proprio lì sul suo terrazzo, dove ora si sentiva solo, senza niente che potesse sollevarlo da quella disperazione che gli annodava lo stomaco. Si asciugò gli occhi ormai liquidi, soffocando un singhiozzo con un atto di volontà supremo, sapendo che suo padre non avrebbe voluto vederlo piangere.
Un urlo rabbioso squarciò il silenzio di quella notte insonne.

mercoledì 21 gennaio 2009

Tra New York e Mosca

Lo schermo del pc mi sta fissando ancora. Una nuova email da aprire: l’ha mandata il dottor Nencini. Sarà la richiesta della solita presentazione per un cliente importante, che non la leggerà mai.
Dovrà essere “ben strutturata”, dovrà “raccontare una storia”, dovrà risultare “sintetica ed esaustiva in tutti gli argomenti che affronta”. E, soprattutto, dovrà essere “pronta per ieri”. Motivo per cui arriva una nuova email che mi blocca il calendario di outlook per domani alle 19: REVIEW PRESENTAZIONE compare nell’oggetto. Addio allenamenti. E, se si tira troppo per le lunghe, salta pure la cena organizzata con gli amici. Chiuso qui, in questo open space che più ottuso non si può. Brancolando nel vuoto del mio cervello ormai prosciugato di qualsiasi ispirazione che entro domani si deve inventare trenta slide di affermazioni di facciata che suonano false già nel momento in cui le penso.
Devo solo cercare di farle piacere al dottor Nencini, il principe di power point, lo stratega della consulenza aziendale che vive solo di equazioni. Dovrò inventarle durante una riunione per il progetto six sigma, rileggerle col sottofondo usurante e chiassoso di decine di telefonate a cui i colleghi avranno la creanza di rispondere utilizzando gli stessi toni dei venditori di pesce al mercato del sabato mattina.
Distolgo lo sguardo dallo schermo e vedo gli aerei volare in alto tra New York e Mosca.
Ma qui sembra non importare niente a nessuno.
Ed io non ce la faccio più.

Questo testo è stato pubblicato sul numero 64 della rivista letteraria internazionale Storie - Leconte editore - 2009

venerdì 5 dicembre 2008

Natale, che palle!

L’allergia alle feste comandate inizia a manifestarsi già intorno all’otto dicembre, ma è a ridosso del venticinque che l’obbligatorietà delle feste rende l’atmosfera insostenibile. La logistica è il primo problema: dove si va? Chi ospita la cena? Da chi andiamo a pranzo? E poi i regali: a chi, cosa, la policy da osservare per non scontentare nessuno. “Sai, se facciamo questo a Marta, Elena potrebbe offendersi perché il suo non è all’altezza”. Quando si è trovato un precario equilibrio per gestire tutte le cazzate del mondo e ti sembra di poter tirare un respiro di sollievo, il peggio sta per arrivare.
La sera del ventiquattro la mannaia cala inclemente tra capo e collo. Urla di bambini elettrizzati, carta, scarta, libri, giochi, vestiti, agende, cd, maglioni, cravatte, camicie, saluti, baci, sorrisi forzati, chiacchiere di circostanza elargite agli zii più lontani, rami parentali di un albero genealogico che sta in piedi solo su carta, cibo.
Com’è aspro naufragar in questo mare…


Questo testo è pubblicato nella raccolta di racconti brevi
Natale che palle! - AA. VV. - Leconte Editore - 2007

mercoledì 19 novembre 2008

City of blinding lights

Sono di nuovo qui a veleggiare nei reticoli autostradali di un assolato pomeriggio di fine ottobre. A bordo di un taxi giallo guidato da un loquace cingalese scivolo inesorabilmente verso l’ombelico della città, felice di guardare i prati verdi delle scuole di periferia e sentirmi a casa. Così felice che mi sembra estate, sotto lo sguardo distratto di un cielo preso in prestito da una tela di Monet.
Il taxi giallo corre via veloce in spregio all’interminabile fila della carreggiata opposta. Vengo qui, una volta ancora per correre, liberare i miei pensieri e dar respiro alle inquietudini che in qualche modo tengo a bada ma che non posso dipanare.

Il taxi giallo è all’ingresso dell’albergo. Cinquanta dollari, due valigie e tanta voglia di accomodarmi in fretta per poi uscire. Stanza esigua: appoggiata la valigia per terra, il percorso per il bagno è simile ad un sentiero angusto da percorrere con cautela.
Una doccia veloce mi ridà energia. Sono pronto per scendere in strada e camminare. Mi dirigo a nord, verso Columbus Circle. E poi a sinistra, west side. Upper west side. Propaggini settentrionali di Broadway. Riverside Drive. Continuando a vagare mi confondo nel fiume di persone che scorre parallelo all’Hudson e sciama su e giù, ciascuno all’inseguimento dei suoi appuntamenti. Il mio è qui: era qui che dovevo venire.
Passo dopo passo assaporo il ventaglio dei colori crepuscolari: le immagini che vedo si sovrappongono a quelle che ricordo. Oscillo tra i battelli che solcano il fiume, i bambini che schiamazzano sulle loro biciclette a quattro ruote e gli impiegati fuggiti dalle loro prigioni, mentre le panchine si svuotano di roller bladers affaticati ed anziani stanchi. Fra me ed il New Jersey le tonnellate d’acqua dell’Hudson troveranno la via del mare. E come il fiume arriva al mare io sto tornando a te, in questo lembo di terra che ci accolse senza chiedere i nostri nomi, regalandoci il caldo surreale dei suoi giorni migliori.

Oh, you look so beautiful tonight

Come vorrei che adesso tu fossi qui, ora che il sole sta finendo di dispensare luce e la sera allunga il suo abbraccio sul perimetro bagnato di questa città che non saprà spegnersi nello sfavillio impazzito delle sue mille luci. Adesso non è tempo, né ho voglia, di tornare indietro. Resto qui, prigioniero di questa magia, di questa lontananza che ti fa vicina. Torno a passeggiare con te, su questa riva che racconta le sue storie di cui non capisco il senso. Ti accarezzo, senza che tu possa accorgertene. Guardo i tuoi occhi che osservano questa lingua d’asfalto, caduta sinuosamente tra gli alberi ed il fiume.
Cammino, con gli ultimi ciclisti che mi sfilano vicino fendendo quest’oscurità inusuale.
Ricordo, levando il manto di oblio sotto cui si sono nascosti i nostri giorni.
Nessuno saprebbe dirmi dove realmente sono.


In this city of blinding lights

giovedì 9 ottobre 2008

La domenica andavamo all'Olimpico

Roma-Juventus era il posticipo della seconda giornata di campionato: stadio Olimpico, ore 20,30. La ciliegina sulla torta di un weekend trascorso con Sara. Sabato sera andammo al cinema a vedere un film di cui nemmeno ricordo il titolo, forse perché il tempo della proiezione venne ingoiato dai baci senza fine che non riuscivamo a non darci quando ci trovavamo in un posto dove stavamo seduti al buio. All’uscita non trovammo nemmeno il tempo di cercare un locale per mangiare una pizza. Stimolati da due ore di languide effusioni entrambi non vedevamo l’ora di reclinare i sedili della macchina per fare l’amore.
Ogni volta che uscivo con lei ero eccitato. La storia con Sara mi aveva proiettato in una dimensione parallela nella quale, nonostante non fosse la prima volta che mi sentivo innamorato, il mondo che mi circondava aveva senso solo ruotando intorno a lei. Nemmeno gli amici, ai quali mai in passato avrei rinunciato, mi sembravano più fondamentali: mi bastava sapere che ci fosse lei, che avessi la possibilità di guardare da vicino i suoi sorrisi per sentirmi appagato e pensare di non aver bisogno di nient’altro.

“Dove vuoi andare?”
“Decidi tu” mi rispose con gli occhi annebbiati da quella tenerezza alla quale raramente si abbandonava.

E mentre guidavo diretto nelle zone di campagna che miracolosamente distavano pochi chilometri dalla casa dove abitavo, continuavo ad assalirla di baci e di carezze che mi portavano a contorsioni da trapezista. L’attrazione che ci legava era un mix inesorabile in cui il sesso ed il sentimento erano così intrecciati da sembrare inestricabili. Amavo Sara perché mi faceva sentire sulla cima dell’Everest e avevo voglia di farci l’amore perché di quella cima mi faceva respirare l’aria fresca ed impalpabile.

La domenica mattina il tempo non era dei migliori ma decidemmo ugualmente di andare a pranzo a Calcata. La partita era alle 20,30, per cui avevamo a disposizione tutto il tempo che volevamo per mangiare con calma, rientrare a Roma ed andare allo stadio.
Calcata è un piccolo paesino a qualche decina di chilometri da Roma famoso per i ristoranti che servono piatti tipici della cucina romana a prezzi buoni. Noi arrivammo intorno alle 14 e faticammo non poco per riuscire a trovare, nell’angusta piazzetta del paese, un posto per parcheggiare. Ci infilammo velocemente nel primo ristorante che incontrammo: fummo fortunati, perché era rimasto un solo tavolo libero. Ci concedemmo primo, secondo e dolce, perché eravamo giovani ed il metabolismo non era un problema. E perché l’ora un po’ tarda ci aveva messo un certo appetito.
Mentre aspettavamo di essere serviti chiacchieravamo di tutto, del lavoro e del nostro futuro, degli amici e delle nostre famiglie.
“Che ne dici se l’anno prossimo ci sposassimo?” mi disse all’improvviso interrompendo i miei discorsi con uno sguardo vibrante che detto da qualsiasi altra donna avuta in precedenza mi avrebbe sdraiato.
Si amore mio, sposiamoci domani, se solo fosse possibile: così avrei voluto risponderle stringendole la mano. Le sue parole mi facevano star bene. Quella domanda, venuta fuori dal nulla, così grande in sé, ascoltata da lei sembrava solo l’ultima parola di una canzone che senti in continuazione.
“Si, faremo così” fu l’unica risposta che le riuscii a dare.

Tornammo a casa sua in tempo per fare l’amore. L’ultima volta di quella settimana che andava a finire. L’ultima volta prima di Roma-Juventus.
Il calendario l’aveva sistemata alla seconda giornata di campionato, 14 settembre. L’attesa di noi tifosi della Roma era altissima: quella partita veniva a testare le nuove ambizioni di una squadra completamente rifatta, figlia di scelte societarie che avevano voluto tracciare una netta linea di separazione con gli anni passati. Nella campagna trasferimenti di quell’estate vennero mandati via tutti i senatori che nello spogliatoio facevano sentire troppo la loro voce (Cervone, Carboni, Lanna, Giannini, Cappioli) e le mezze figure che l’anno precedente avevano disputato uno dei peggiori campionati nella storia della Roma. Vennero acquistati giocatori importanti come Cafù e Paulo Sergio, nazionali brasiliani; altri affidabili e di rendimento, come il portiere austriaco Konsel e il cursore Di Francesco; e venne data fiducia ai giovani di talento che si erano messi in luce nella disgraziata stagione 1996-97: Totti e Tommasi.
La squadra venne affidata a Zdenek Zeman, allenatore dalle idee tattiche spregiudicate, licenziato dalla Lazio l’anno prima e per questo assetato di rivincita e desideroso di dimostrare, sulla sponda opposta della città, la validità delle sue teorie. In altre parole in quell’estate del 1997 la squadra venne completamente ridisegnata ed i primi risultati positivi maturati nelle amichevoli estive (in particolare un 2-1 contro l’Inter a fine agosto) e il buon esordio in campionato (3-1 in trasferta ad Empoli) avevano gonfiato di speranze tutto l’ambiente. L’arrivo della Juventus campione in carica stuzzicava le ambizioni di tutti, rappresentando il primo vero banco di prova per una squadra che prometteva bel gioco e risultati dopo dieci anni in cui il primo aveva latitato ed i secondi erano stati piuttosto miseri.

Parcheggiammo la macchina e ci incamminammo giù per la discesa ripida e tortuosa che sbocca in prossimità degli ingressi di tribuna Monte Mario. La tensione cominciava a salire man mano che ci avvicinavamo allo stadio e le persone che ci circondavano crescevano di numero ed avevano la nostra stessa meta. Sciarpe, bandiere, clacson e accenni di cori si dirigevano inevitabilmente ai piedi della collina, dove di lì a poco avremmo assistito a quella che per noi romanisti è la madre di tutte le partite.
Entrammo una ventina di minuti prima dell’inizio dell’incontro. Spalti stracolmi, anche in tribuna si stava seduti a gomiti stretti. Tifo alle stelle, fatto più di insulti agli avversari che di sostegno alla nostra formazione: “Juve merda”, “Bastardo bianconero” e “Juventino ciucciapiselli di tutta quanta la famiglia Agnelli” erano i tre cori che, diversamente scanditi, riempivano l’atmosfera dell’Olimpico e infondevano coraggio forse più a noi tifosi che ai giocatori negli spogliatoi. L’odio per la Juventus accende il tifoso romanista della stessa intensità di cui arde il suo amore per la squadra. La Juventus rappresenta qualcosa che va oltre l’aspetto sportivo: il potere della Fiat, il sopruso, il furto dei campionati, la corruzione si riassumono in quella parola latina di otto lettere che è fumo negli occhi per qualsiasi romanista che voglia definirsi davvero tifoso. Una rivalità che si è acuita nel tempo, a partire dai primi anni ottanta, dall’ormai famoso gol annullato a Turone in quella trasferta del dieci maggio 1981, e ha trovato modo di alimentarsi con diversi episodi nelle stagioni successive. Ogni anno, nel giorno di Roma-Juventus, tutta la città ribolle di questa acrimonia che si esprime nel modo più compiuto all’interno dell’Olimpico.
Dopo i primi sussulti iniziali il match divenne una sorta di partita a scacchi. La Roma cercò più volte di sorprendere gli avversari con verticalizzazioni improvvise che non misero quasi mai davvero in difficoltà la retroguardia avversaria, sufficientemente esperta nel tenere a bada le nostre velleità offensive. Dopo un bel tiro di Totti al volo sul quale Peruzzi fece un grandissimo intervento, le poche occasioni pericolose della partita le produsse la Juventus. Rogerio Wagner, sul quale erano puntati gli occhi e le grandi attese di tutti, fece una partita anonima e venne sostituito, denotando poche caratteristiche positive oltre al fisico da marine. Finì 0-0 non senza una certa delusione: ci aspettavamo di più, nel gioco prima ancora che nel risultato. La Roma dimostrò di essere ancora in fase di assimilazione dei nuovi schemi e, soprattutto, acerba nella gestione degli incontri coi grandi avversari.
Defluimmo lentamente verso l’uscita, facendo al contrario il percorso dell’andata. Tenendola per mano, mi chiedevo se Sara sarebbe rimasta mia per sempre.

domenica 14 settembre 2008

Le parole degli altri

"Amo l'atletica perché è poesia.
Se la notte sogno,
sogno di essere un maratoneta..."

Eugenio Montale

martedì 2 settembre 2008

La stanza

La luce di aprile, uno sfavillante mese di aprile del 1986, invadeva prepotente la stanza di Stefano. Lui, seduto sulla sedia di legno di vernice color crema col sedile di tessuto blu, provava a concentrarsi sul libro di scienze naturali. C’era il rischio, l’indomani, di essere interrogato. Ma per quanti sforzi facesse, quel pomeriggio c’era davvero poco da fare, se non perdersi con lo sguardo nel paesaggio che traspariva dai vetri della finestra, chiusa per non far entrare i rumori provenienti dalla strada. Quella luce riempiva ogni parte della stanza di una forza che rinvigoriva ogni oggetto: l’armadio di formica chiara che copriva la parete confinante con la stanza del fratello; le copertine dei volumi ordinati nella libreria; il copriletto azzurro mare ben sistemato dalla governante durante le pulizie della mattina. Perfino il libro aperto sullo scrittorio, sul quale pendeva assonnata la testa di Stefano nel vano tentativo di ripassare i capitoli già dimenticati, assumeva un aspetto diverso grazie a quella luce che entrava così violentemente dalla finestra, riscaldando l’aria a causa di un sorprendente effetto serra. Stefano aveva voltato lo sguardo verso il muro, dove aveva appeso qualche giorno prima un megaposter che esaltava il suo centravanti preferito, all’apice del balzo col quale anticipava di testa un difensore della Juventus per fare gol.
No, quel pomeriggio non era proprio possibile continuare a studiare. Nonostante la finestra fosse chiusa, il polline della primavera entrava in quella stanza, portato dalla luce, dal calore, dalle promesse che quel pomeriggio portava con sè. A Stefano venne voglia di scrivere: era solito farlo nei momenti come quello, in cui sentiva battere dentro il ritmo della poesia, della bellezza delle cose, della musica. Il foglio di quaderno che prese avrebbe aspettato poco prima di essere riempito.
Stefano andò verso lo stereo senza esitare, scegliendo “Ghost in the Machine” dei Police: lo aveva registrato appena due giorni prima. “Every little thing she does is magic, everything she do just turns me on”: quel ritornello, in breve, si impossessò dei suoi pensieri. Ci sarebbe voluto davvero poco prima di buttare giù una nuova composizione d’amore.

venerdì 22 agosto 2008

Intervallo a stelle e strisce

Duplice fischio, finisce il primo tempo. Accendiamo le luci della cucina, mentre il salone rimane al buio per consentire la visione del maxi schermo e ascoltare i commenti a caldo della prima frazione di gara. Andamento impensabile, forse, ma il fascino del calcio sta nell’imprevedibilità che spesso elargisce. Partita tesa più del consentito, diversi interventi troppo duri, anche da parte della selezione degli emarginati dai “veri” sport USA.
“De Rossi è proprio un coglione, ma che gli è frullato per la testa?” il primo commento che si leva indistinto ma nitido dal buio assiepato del salone dopo il primo replay mandato nel corso dell’intervallo.
C’è chi esce sul terrazzo per fumare, chi si dirige verso la cucina per sedare i crampi allo stomaco. Sarebbe una partita dall’esito incerto quella tra pizzette addentate e sigarette.
Si susseguono i commenti più disparati, anche se in questi frangenti l’esercizio più diffuso rimane quello di dare del pippone a questo o quel giocatore, spesso guidati nel giudizio dalle più bieche tendenze del tifo individuale. “Cannavaro è drogato, non vedi come sta giocando? Dite a Lippi di toglierlo” insinua una voce dal fondo del salone. “Pensa a quel coatto di De Rossi” è la replica immediata che sale dal divano appostato al lato del maxi schermo.
Assaporo il mio terzo pezzo di pizza, gustando divertito il ping pong di battute che volano per aria. Calciopoli ha un po’ sedato la mia passione per la Nazionale, per cui riesco a deviare il pensiero dalla domanda che tra 45 minuti avrà soluzione: come andrà a finire?
Torno al mio posto, sta per ricominciare.

Questo testo è pubblicato nella raccolta di racconti brevi Italia del Mondo - AA. VV. - Leconte Editore - 2006

mercoledì 30 luglio 2008

La tesi

Mi sono laureato il 15 marzo del 1993, nel tipico calderone che diventa la facoltà nelle giornate dedicate alla discussione delle tesi: decine di persone che si aggirano agitate nell’atrio e nei corridoi accompagnate da stuoli di amici e parenti che contribuiscono pesantemente ad innalzare il tasso di entropia generale e di tensione nervosa negli sventurati che devono presentare la loro ultima fatica universitaria. Non ho mai capito che cosa ci sia di interessante nel vedere un ragazzo vestito come un manichino farfugliare le due-tre cose che gli vengono chieste da una congrega di parrucconi aggrappati alle loro sedie quasi come alla loro stessa vita.
Arrivai a tagliare quel traguardo dopo un percorso accademico discreto: nei quattro anni previsti terminai gli esami, mentre impiegai i successivi sei mesi per ultimare l’elaborazione di una tesi compilativa in diritto civile. Mi seguì nella stesura un relatore sinistro e vacuo, il cui compito non era altro che ricevere le copie dei capitoli che stendevo e, dopo una settimana, riconsegnarmele per dire che andavano bene. Non ho mai creduto al fatto che leggesse i miei taglia e incolla, ma in fondo mi stava bene così: prima finivo e prima sarei riuscito a concludere la mia vicenda universitaria che, seppur ampiamente soddisfacente, non rappresentava per me un motivo di vanto particolare. Nella scala gerarchica dei miei valori il primo posto se lo giocavano con fortune alterne le ragazze ed il calcio, mentre il successo all’università si doveva accontentare, nettamente staccato, del terzo gradino del podio. Anche se, detto francamente, delle tre discipline era quella nella quale riuscivo meglio.
La mattina del 15 marzo mi alzai intorno alle otto e feci regolarmente colazione. Ero sorpreso di quanto mi sentissi OK, senza paure particolari. Almeno fino a mezzogiorno. Non so cosa cambiò nel mio organismo, so solo che all’improvviso, semplicemente guardando l’orologio per vedere quanto mancava al pranzo, venni assalito da un panico assurdo. Sentii addosso tutto quello che nei giorni precedenti non avevo mai avvertito e mi passò completamente quella fame che non più tardi di cinque secondi prima mi aveva spinto a guardare l’orologio. L’appuntamento topico era ormai vicino, troppo vicino per pensare che potesse continuare a non fare alcun effetto. Ero molto sorpreso: da una calma eccessiva ad un timore intenso, molto più intenso di quelli provati in precedenza per qualsiasi altro esame. Quel giorno mangiai pochissimo.
Alle 14 ero in piedi davanti all’armadio per indossare la “divisa” da uomo. Uno spezzato con blazer blu e pantaloni grigi, camicia azzurra e cravatta in tinta con fantasia in cachemire. Non amavo quei vestiti, non li ho mai amati. Nemmeno oggi, a distanza di tanto tempo, sono riuscito a liberami da quel fastidio latente. Sarà che è un’imposizione, sarà che non mi sento comodo, sarà che il pantalone largo non mi è mai piaciuto: fatto sta che anche adesso, quando la mattina apro lo sportello dell’armadio per indossare giacca e cravatta, c’è sempre una voce interiore che bisbiglia e mi tenta con una semplice domanda:”Ma perché oggi non esci in jeans e camicia?”. A volte le cedo. Sono quelle giornate in cui ho dormito poco, sono stanco pur non avendo fatto ancora nulla e ho bisogno di darmi coraggio per cominciare la giornata.
Alle 14,30 ero pronto. Mi ricontrollai bene allo specchio: nodo della cravatta a posto, capelli in ordine. Ero pronto a sbarcare in Normandia. La sensazione, più o meno, era quella.
Volli prendere la mia macchina, anche se la feci guidare ad un amico. La tangenziale, alle tre del pomeriggio, era libera. Arrivammo nei pressi dell’università in meno di mezz’ora. Parcheggiammo. Varcammo l’ingresso. Mi sfiorò il pensiero che di lì a qualche ora quei luoghi, che erano stati miei per diversi anni, sarebbero entrati nell’album dei ricordi. Fu un attimo perché il presente riprese con forza il sopravvento. Dovevo entrare in facoltà, salire quelle scale che, in quel momento, mi sembravano molto simili ad un calvario, sapendo che nulla mi avrebbe potuto evitare quel passaggio di fuoco.
La facoltà sembrava una bolgia: centinaia di persone pullulavano tra l’ingresso e i corridoi. Un viavai continuo, tra ragazze che piangevano emozionate e giovani dai movimenti goffi in quei vestiti per loro inusuali. Momenti immortalati dai fotografi di turno, appostati come avvoltoi all’uscita delle aule di discussione delle tesi. Si avvicinavano come se conoscessero da una vita i neodottori e li invitavano, ancora rintronati, a posare sorridenti coi loro genitori. Scene raccapriccianti, alle quali sapevo di dover sottostare anch’io.
L’inizio della mia discussione era previsto per le 16, ma avevo messo in preventivo che l’orario non sarebbe stato quello. Immaginavo uno di quei ritardi cosmici che gli esami degli anni precedenti mi avevano fatto sopportare. In realtà, alle 16,15, una bidella uscì dall’aula e chiamò il mio nome.
Fu come un proiettile alle ginocchia: mi sentii le gambe mancare. Ostentai sicurezza dirigendomi spedito verso la porta ma in realtà quella sensazione di crollo non l’avevo mai provata prima. E mai più la provai in seguito. Ciò nonostante proseguii il mio cammino verso la sedia del candidato che era sistemata proprio al centro dell’aula. Negli scranni alle mie spalle presero posto parenti, amici e qualche estraneo che prendeva appunti. Davanti a me la lunga tavolata della commissione, composta da professori più o meno altezzosi, quasi tutti oltre i cinquanta tranne i relatori. Me la stavo facendo sotto, inutile negarlo. Non fu inutile, invece, reagire alla situazione raccogliendo tutte le nozioni che avevo sparse nei meandri del cervello per rispondere alle domande. Non ricordo bene lo svolgimento dell’interrogazione, so che ci fu un momento in cui puntualizzai con determinazione ad alcune osservazioni sollevate dal presidente della commissione. Andò tutto bene. Quando il presidente disse che la commissione si ritirava per valutare mi alzai e mi diressi verso l’uscita. Avevo finito. Rientrai dopo pochi minuti per sentire il voto finale e stringere le mani ai professori, che mi fecero i loro auguri per un futuro radioso. Sapevo che del mio futuro a loro non interessava niente, ma in quel momento di decompressione mi sembrarono affermazioni sincere.
Statistiche della finale: domande: tre. Tempo di gioco: dieci minuti. Valutazione della tesi: cinque punti su cinque. Pensai che fosse assurdo valutare una tesi in quel modo, ma alla fine che importava? Tutto aveva funzionato bene: ero dottore e chiudevo quella parentesi noiosa della mia vita. Ma in quel preciso istante quella parentesi assumeva un profilo diverso: mi faceva effetto la consapevolezza di aver appena scritto la parola fine ad una stagione durata cinque anni. Tra baci, abbracci e complimenti di parenti e amici che sembravano più contenti di me, il mio sguardo scappò verso il cielo di quel pomeriggio in bilico tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Mi ricordai dei primi mesi, quando l’università mi appariva una montagna troppo alta da scalare. La prima estate di studio, coi libri portati al mare e i pensieri d’amore che riempivano di sé le pagine che leggevo e gli anni a venire. Mi sembrò di rivedere tutto in quel cielo così terso, che calava come un sipario sul primo atto della mia vita.

domenica 27 luglio 2008

Pain passes by, glory is forever

Al JFK è sempre così. Quando sbarchi non puoi pensare di essere già arrivato. Cioè, uscire dall’aeroporto, prendere un taxi al volo e impossessarti della stanza dell’albergo che ti attende dopo nove ore di volo. Dopo l’11 settembre i controlli della dogana sono lunghi e minuziosi: mostri il passaporto all’ufficiale che ti squadra per vedere se la foto corrisponde alla faccia che porti, consegni il foglio verde compilato sull’aereo pieno di domande assurde e poi rilasci le impronte digitali e quelle oculari. Prima di ottemperare a questa minuziosa procedura, però, è necessario fare più di un’ora di fila. Fortunatamente sono insieme ad altri compagni del circolo sportivo coi quali riusciamo a far passare abbastanza velocemente i minuti dell’attesa.
Siamo tutti qui per lo stesso motivo: correre la maratona di New York. Forse la più dura, certamente la più famosa del mondo: è da un anno che la preparo. Tra mille difficoltà: allenamenti infrasettimanali alla fine delle giornate di lavoro, un infortunio muscolare che mi ha bloccato nella fase cruciale della preparazione, il recupero lento ed incerto che ha reso vacillanti le mie previsioni sul buon esito della gara. Ci ho messo tutto me stesso per essere qui: cuore, anima, corpo, cervello, tempo, soldi. Tutto. Quest’anno la maratona è il mio obiettivo, verso cui mi dirigo come una freccia scagliata con la massima precisione.
Finalmente arriviamo all’albergo. New York è sempre affascinante. Quella città che pensi di conoscere già anche se non ci sei mai stato, per via delle centinaia di immagini che di lei si sono già viste in tutti i film girati qui. New York è come una donna a cui tutti fanno la corte perché è bella, ricca, intelligente ed ha sempre qualcosa di nuovo che ti stupisce. Passeggiarne i marciapiedi è un po’ come accarezzarla e farsi prendere per mano, lasciandosi guidare alla scoperta delle sue ricchezze.
Due giorni tipicamente newyorkesi, fatti di metropolitana, taxi, musei e shopping, e finalmente arriva la domenica della gara. Sono due giorni che ti consumano lentamente, vissuti in compagnia di una sottile forma di tensione della quale non riesci a liberarti, che la notte prima della partenza ti costringe a impasticcarti per dormire la miseria di quattro ore. Alle cinque e mezza, quando scendo nella hall, c’è di tutto: gente che correrà col braccio ingessato, chi addirittura con le stampelle. Donne ampiamente soprappeso oltre la cinquantina, ragazzi prosciugati dagli allenamenti pronti ad uscire in canottiera. L’atmosfera di attesa che precede i grandi avvenimenti mi innervosisce: passeggio avanti e indietro per vedere se i miei compagni sono scesi. Alla fine arrivano anche loro: sono le cinque e quarantacinque ed usciamo fuori per prendere posto nei sedili posteriori del pullman.
Ci inoltriamo giù per le strade di Manhattan che è ancora notte: tantissimi pullman parcheggiati sul lato destro della strada, altri ancora che ci precedono e ci seguono. All’improvviso l’autobus costeggia Ground Zero, e il mio sguardo viene catturato in maniera un po’ morbosa. L’area dove sorgevano le Torri Gemelle è ormai solo un enorme cantiere. Qui, tra quattro anni, si leverà al cielo un nuovo prodigio dell’architettura contemporanea, ennesimo monumento al dio denaro di questa città che ondeggia tra l’invincibile voglia di guardare avanti e il doloroso ricordo delle sue ferite. In quello che sembra diventato l’ombelico della città convergono le più disparate sollecitazioni: paura, speranza, tristezza. In me vince la voglia di provare ancora, dalla sommità di un terrazzo panoramico, l’incantevole suggestione dettata dall’incrocio tra le guglie di Manhattan, Staten Island e l’oceano Atlantico.
Usciamo da Manhattan, non capisco bene da dove. Il percorso è lungo e tra le chiacchiere coi compagni, i tunnel ed i ponti non riesco a intendere che strada abbia fatto l’autista. Quando in lontananza avvistiamo il Verrazzano Bridge il sole si è già alzato e, nonostante sia domenica, le strade della città brulicano di vetture in transito. Il pullman procede, continuiamo a non capire dove passerà per portarci a Fort Wadsworth, Staten Island, il primo dei cinque quartieri di New York che toccherà il percorso.
Alla fine ci fermiamo, in coda ad altri pullman: è il momento di scendere. Convergiamo anche noi nel fiume di persone che camminano ordinatamente verso l’entrata dell’area di partenza, enorme e suddivisa in tre diverse zone di accesso. La polizia controlla il contenuto delle nostre borse di plastica, rigorosamente trasparenti. Arriva il momento di dividersi: tre di noi partiranno dalla zona verde, gli altre tre, tra cui io, da quella blu. Abbracci, baci e in bocca al lupo: ci vediamo stasera in albergo. Mancano tre ore alla partenza e non riesco a capire come riusciranno a passare senza stancarmi più della maratona.
Troviamo un piccolo spazio libero sotto uno di questi tendoni. Per fortuna è sull’asfalto, per cui c’è un po’ di umidità in meno. Ci sdraiamo supini, ci rialziamo per poi sederci, parliamo. Sono un novellino, Emanuele e Francesco ne hanno già corse altre di maratone, anche qui a New York, e hanno dei tempi che io, ad oggi, posso solo sognare. Emanuele mi propone di seguirlo per prendere un buon ritmo; Francesco, più realista, giustamente mi disincentiva, invitandomi a riscaldarmi bene e a trovare il mio ritmo di gara per arrivare al traguardo in buone condizioni. “Per te – mi dice - l’importante oggi è arrivare alla fine in buone condizioni. Alla prossima penserai al tempo. Ricordati cosa dicono qui: one race, one pace. Trova il tuo ritmo e poi seguilo. Sono sicuro che ce la farai”.
Adesso manca un’ora alla partenza, così decidiamo di andare a depositare ai camion le nostre borse. Anche se avremmo dovuto farlo prima: c’è una fila spaventosa, soltanto dopo tre quarti d’ora di compressione e qualche spinta riesco finalmente a depositare la mia borsa. Saluto i compagni, che hanno un numero di pettorale più basso del mio, e mi avvio verso la mia zona di partenza. Cammino lentamente nello snodato serpente di persone che si avvicina alla partenza del Verrazzano Bridge.
Ad un certo punto il lento incedere verso la linea di partenza si ferma, e proprio mentre comincio a vedere la sagoma del ponte che si affaccia oltre un recinto alberato ancora verde, esplode il colpo di cannone che da il via agli atleti in prima fila. Un urlo di eccitazione si leva dalla schiera di gente che mi precede: la maratona di New York del 2007 è cominciata!
Comincio a correre all’altezza dei caselli stradali per il pagamento del pedaggio d’accesso al ponte. L’inizio del percorso è tutto in salita e la mia strategia di gara prevede di iniziare molto lentamente, per scaldarmi bene e non rischiare alcun tipo di infortunio muscolare. Mi guardo attorno: ci sono migliaia di persone che mi precedono e che sono alle mie spalle, ognuna che corre col suo ritmo. Affaccio lo sguardo giù dal ponte e vedo una nave che crea giochi d’acqua sul mare. Un sole imprevedibile fa riflettere di luce argentea tutta la baia.
Alla fine del Verrazzano si mette piede a Brooklyn e l’impatto è subito caldissimo: centinaia di persone si accalcano alle transenne poste su entrambi i lati della strada per incitare tutti i partecipanti, dal primo all’ultimo, in un carnevale di cartelli, suoni e colori che mette i brividi. E’ incredibile pensare che stanno riservando la stessa attenzione data al gruppo dei primi anche a noi, che viaggiamo intorno al 30 milesimo posto… Urla, applausi, batti il cinque: non mi perdo niente di questo bagno di folla che, per un momento, mi fa sentire importante e famoso come se fossi una rockstar o un calciatore. “Go, go”, “You look good”, “Forza Italia” sono alcune delle frasi che rimbalzano dai marciapiedi. Si percorre tutta la 4th Avenue in direzione nord, dall’incrocio con la 95° strada fino a Union Street. Ci sono tanti sudamericani, soprattutto peruviani, cileni e brasiliani, qualche argentino. Tantissimi centroamericani. I neri immancabili oltre a qualche turista infiltrato che fa il tifo per i partecipanti della sua nazione. Brooklyn è ospitale, piena di colori che convergono nell’azzurro tenue di questo fresco cielo autunnale. Tanta gente osserva anche dai balconi e dalle finestre delle case. I miei primi chilometri si snodano tra queste strade col sorriso sulle labbra, sempre pronto a ringraziare per un incitamento o un saluto. Uno spettacolo!
Un po’ prima del ponte che collega Brooklyn al Queens si supera il tredicesimo miglio: metà gara è andata. E’ una notevole iniezione di fiducia. Più che pensare alla fatica che avverto mi concentro sul fatto che ho già lasciato dietro di me oltre metà dell’opera. Arrivato sul ponte stabilisco che è il momento di fare un break e dare un po’ di ristoro ai muscoli, per cui decido di andare al passo per dieci minuti e di fare stretching in previsione del famoso momento di crisi che pare attanagliare tutti i maratoneti a ridosso del ventesimo miglio, il fatidico Muro (The Wall). Mentre cammino decido anche di mangiare una delle due barrette energetiche che mi sono portato nel sottile marsupio che mi gira intorno alla vita. Mastico con estrema cura e precisione quello che sembra essere ormai una specie di chewing gum che, a contatto col calore del corpo, si è malamente ammorbidito, onde evitare una fase digestiva che richiami troppo sangue nello stomaco.
Superato il ponte metto piede nel Queens e ricomincio a correre. Inoltrandomi nel nuovo quartiere torno a guardarmi intorno, a vedere la gente per strada ed alle finestre, ad avvicinarmi alle transenne appositamente per battere il cinque a chi me lo vuole dare. Un altro miglio e mezzo ed arriviamo ai piedi del Queensboro Bridge. Questo ponte è inquietante: lungo un chilometro, unisce il Queens a Manhattan (da qui il nome) passando sopra Roosevelt Island. E’ tutto coperto, per cui genera un senso di oppressione che probabilmente ha la sua influenza nell’anticipare il momento della mia crisi. Adesso le gambe sono rigide e mettermi a correre in salita per la prima metà della sua estensione mi sembra una mossa inopportuna, per cui decido di farmela a passo veloce. Quando vedo la fine del ponte e la curva a gomito che immette sulla First Avenue riprendo la corsa.
Lo scorcio che vedo è incredibile: una folla di nuovo numerosissima si accalca sulle transenne e accompagna con una raffica di urla le onde di concorrenti sfornati dal Queensboro Bridge. Tutti incitano, gridano il tuo nome, “you can do it, you can do it” in continuazione; ancora mani tese che cercano la tua. Ecco, adesso ho imboccato la First Avenue: è enorme, larghissima e lunghissima. Non ne vedo la fine e non riesco a contarne le corsie, forse anche perché sono ormai annebbiato dalla fatica. La gamba destra sembra quasi ingessata, mi sembra che da un momento all’altro il quadricipite possa strapparsi. Capisco che è arrivato il momento di crisi, quello che mette tutti in ginocchio, che alcuni non superano. In questi momenti, quando sul fisico non puoi fare affidamento, deve emergere la forza mentale, per cui mantengo la calma, tengo lontano da me qualsiasi pensiero che possa scoraggiarmi o togliermi concentrazione. So che voglio arrivare, che la linea del traguardo è il mio obiettivo, l’unica cosa per la quale sono arrivato fin qui e che niente al mondo potrà impedirmi di arrivare. Male che vada ci arriverò passeggiando, ma devo arrivare. Così rallento il ritmo della corsa ma non mi fermo. So che bisogna avere pazienza e saper aspettare. Quando la tempesta sarà passata, andrò avanti per forza di inerzia. Così hanno detto quelli che ci sono passati, così sarà anche per me.
La 1st Avenue è ancora lunga da finire ma la consapevolezza di aver superato “The Wall” mi rende ottimista. Nello stesso tempo so che manca ancora parecchio al traguardo: dodici chilometri sono pur sempre una distanza considerevole anche se ne ho già fatti più del doppio. Se, da un lato, questa considerazione ha un positivo impatto emotivo, la mia parte razionale sa che, proprio perché il corpo ha già speso molto, non bisogna cedere all’entusiasmo. Mi accorgo che il cervello funziona come un navigatore di bordo: elabora calcoli, misura i segnali della “macchina” e fa accendere le spie se c’è un’emergenza in qualche parte del motore. A suo modo lavora quanto le gambe, la schiena e le braccia. E’ questa la cosa incantevole di questa disciplina: l’interazione costante, necessaria, ineluttabile di mente e corpo, il loro inseguirsi, l’aver bisogno inesorabilmente l’uno dell’altra, il loro venirsi incontro nei momenti difficili. Dopo l’inizio, in cui la freschezza atletica prendeva il sopravvento, e gli ultimi chilometri, dove la forza mentale ha sostenuto l’affaticamento dei muscoli, adesso regna un equilibrio frutto delle due fasi precedenti. Da ora in poi la mia velocità di corsa rimarrà costante fino alla fine.
Sul finire della 1st Avenue la folla ai lati della strada si dirada, lasciando spazio a diversi gruppi musicali che suonano a buon ritmo i loro brani. Giunge il momento di transitare sul Willis Avenue Bridge, un “ponticello” che ci scarica nel Bronx. Lo scenario è più dimesso: le case che fanno da sfondo sono basse e ammaccate, la gente meno numerosa ma piena di entusiasmo. Nonostante la stanchezza mi rimane quel briciolo di lucidità che mi consente di ragionare sul luogo in cui mi trovo: il ritratto della povertà, dell’ignoranza e della violenza che ne hanno fatto i film americani sembrano nascondersi dietro questi avamposti del quartiere più malfamato della Grande Mela. E’ solo un attimo, una fugace distrazione in cui non riesco a scivolare perché il mio obiettivo è ancora lontano e io lo voglio sempre più, in maniera inversamente proporzionale alle energie che lentamente mi abbandonano. Allora stringo i denti, non mollo, continuo a correre. Corro, o forse mi sembra di correre e invece sto barcollando, cercando di dare al mio passo un incedere quanto meno dignitoso. Qui nel Bronx è solo un miglio, giusto per dire che la maratona di New York lambisce tutti i cinque quartieri della città. Politically correct.
Il transito del Madison Avenue Bridge ci riporta a Manhattan. O meglio, Harlem. Uno splendido coro gospel di afroamericani ci da il benvenuto coi suoi canti nati dal dolore. Mi percorre un brivido nel sentire dal vivo, nel bel mezzo della strada, queste voci calde e potenti, le voci dei neri. Una scossa che per qualche centinaio di metri mi fa accelerare il ritmo. Harlem: tipiche case di mattoni rosso sangue dove anche gli U2, nel lontano 1987, vennero a girare il video di “I Still Haven’t Found What I’m Looking For” ripreso in Rattle & Hum.
Al ventiduesimo miglio (adesso i chilometri non riesco più a calcolarli) entriamo al Markus Garvey Memorial Park. Potrebbe sembrare Central Park, ma mi sono documentato e so che prima di arrivarci si passa per questo piccolo parco verde dietro al quale si stagliano alti verso il cielo i grattacieli. Molti, non sapendolo, credono di essere ormai in prossimità del traguardo, ma non è così: mancano ancora circa sette chilometri che dovrei riuscire a percorrere in una cinquantina di minuti. Mi sento come un cacciatore che ha quasi raggiunto la sua preda: sono tentato di pensare che ok, si, ce l’ho fatta, posso cominciare a gioire. E’ una forma di gratificazione che cerco istintivamente, ma riesco a rimanere vigile e a non abbassare la concentrazione. Anni di sport mi hanno insegnato che un risultato si acquisisce solo quando un arbitro fischia o un cronometro si ferma. Per cui torno a raccogliermi sui miei sforzi, sui miei muscoli, sull’andatura. Però l’aria della festa si comincia a respirare: lungo i marciapiedi alberati le urla della gente ondeggiano tra gli ultimi incoraggiamenti e le congratulazioni. “You’re almost there, you’re almost there; great, great! you’re great!” Fisso questi sguardi che sorridono soddisfatti e compiaciuti come se fossero stati loro stessi a compiere l’impresa. All’improvviso ho un impeto di commozione che soffoco immediatamente pensando che non è ancora tempo per festeggiare.
Perciò continuo a correre: corro, corro, corro ancora su e giù per questi saliscendi che mi fanno sbucare finalmente sull’ultimo rettilineo di Central Park South, dove un tripudio di gente continua ad incitare, dove a chi mi chiama per nome ho voglia di regalare un sorriso, un tocco di mano, un pollice alzato perché per un giorno, per cinque ore della mia vita che non riuscirò mai a dimenticare mi hanno fatto sentire importante, di nuovo capace di darmi un obiettivo e di raggiungerlo con tutte le mie risorse, riscoprendo che la più determinante di tutte è la passione. L’ultimo chilometro è un turbinio vorticoso nel quale fatica ed entusiasmo danzano con me verso la fine. E proprio adesso, mentre vorrei accelerare come so di non potere, esplodono nell’aria le note struggenti di colui che negli anni ottanta l’America me la fece immaginare, in un momento catartico che cancella ogni peccato e mi fa sentire davvero nato per correre. Il New Jersey è li davanti a me, a pochi chilometri in linea d’aria, e mai ho avuto la fantasia di pensare che un giorno avrei finito la maratona di New York spinto dalla più bella canzone scritta dal Boss di Asbury Park.