mercoledì 30 luglio 2008

La tesi

Mi sono laureato il 15 marzo del 1993, nel tipico calderone che diventa la facoltà nelle giornate dedicate alla discussione delle tesi: decine di persone che si aggirano agitate nell’atrio e nei corridoi accompagnate da stuoli di amici e parenti che contribuiscono pesantemente ad innalzare il tasso di entropia generale e di tensione nervosa negli sventurati che devono presentare la loro ultima fatica universitaria. Non ho mai capito che cosa ci sia di interessante nel vedere un ragazzo vestito come un manichino farfugliare le due-tre cose che gli vengono chieste da una congrega di parrucconi aggrappati alle loro sedie quasi come alla loro stessa vita.
Arrivai a tagliare quel traguardo dopo un percorso accademico discreto: nei quattro anni previsti terminai gli esami, mentre impiegai i successivi sei mesi per ultimare l’elaborazione di una tesi compilativa in diritto civile. Mi seguì nella stesura un relatore sinistro e vacuo, il cui compito non era altro che ricevere le copie dei capitoli che stendevo e, dopo una settimana, riconsegnarmele per dire che andavano bene. Non ho mai creduto al fatto che leggesse i miei taglia e incolla, ma in fondo mi stava bene così: prima finivo e prima sarei riuscito a concludere la mia vicenda universitaria che, seppur ampiamente soddisfacente, non rappresentava per me un motivo di vanto particolare. Nella scala gerarchica dei miei valori il primo posto se lo giocavano con fortune alterne le ragazze ed il calcio, mentre il successo all’università si doveva accontentare, nettamente staccato, del terzo gradino del podio. Anche se, detto francamente, delle tre discipline era quella nella quale riuscivo meglio.
La mattina del 15 marzo mi alzai intorno alle otto e feci regolarmente colazione. Ero sorpreso di quanto mi sentissi OK, senza paure particolari. Almeno fino a mezzogiorno. Non so cosa cambiò nel mio organismo, so solo che all’improvviso, semplicemente guardando l’orologio per vedere quanto mancava al pranzo, venni assalito da un panico assurdo. Sentii addosso tutto quello che nei giorni precedenti non avevo mai avvertito e mi passò completamente quella fame che non più tardi di cinque secondi prima mi aveva spinto a guardare l’orologio. L’appuntamento topico era ormai vicino, troppo vicino per pensare che potesse continuare a non fare alcun effetto. Ero molto sorpreso: da una calma eccessiva ad un timore intenso, molto più intenso di quelli provati in precedenza per qualsiasi altro esame. Quel giorno mangiai pochissimo.
Alle 14 ero in piedi davanti all’armadio per indossare la “divisa” da uomo. Uno spezzato con blazer blu e pantaloni grigi, camicia azzurra e cravatta in tinta con fantasia in cachemire. Non amavo quei vestiti, non li ho mai amati. Nemmeno oggi, a distanza di tanto tempo, sono riuscito a liberami da quel fastidio latente. Sarà che è un’imposizione, sarà che non mi sento comodo, sarà che il pantalone largo non mi è mai piaciuto: fatto sta che anche adesso, quando la mattina apro lo sportello dell’armadio per indossare giacca e cravatta, c’è sempre una voce interiore che bisbiglia e mi tenta con una semplice domanda:”Ma perché oggi non esci in jeans e camicia?”. A volte le cedo. Sono quelle giornate in cui ho dormito poco, sono stanco pur non avendo fatto ancora nulla e ho bisogno di darmi coraggio per cominciare la giornata.
Alle 14,30 ero pronto. Mi ricontrollai bene allo specchio: nodo della cravatta a posto, capelli in ordine. Ero pronto a sbarcare in Normandia. La sensazione, più o meno, era quella.
Volli prendere la mia macchina, anche se la feci guidare ad un amico. La tangenziale, alle tre del pomeriggio, era libera. Arrivammo nei pressi dell’università in meno di mezz’ora. Parcheggiammo. Varcammo l’ingresso. Mi sfiorò il pensiero che di lì a qualche ora quei luoghi, che erano stati miei per diversi anni, sarebbero entrati nell’album dei ricordi. Fu un attimo perché il presente riprese con forza il sopravvento. Dovevo entrare in facoltà, salire quelle scale che, in quel momento, mi sembravano molto simili ad un calvario, sapendo che nulla mi avrebbe potuto evitare quel passaggio di fuoco.
La facoltà sembrava una bolgia: centinaia di persone pullulavano tra l’ingresso e i corridoi. Un viavai continuo, tra ragazze che piangevano emozionate e giovani dai movimenti goffi in quei vestiti per loro inusuali. Momenti immortalati dai fotografi di turno, appostati come avvoltoi all’uscita delle aule di discussione delle tesi. Si avvicinavano come se conoscessero da una vita i neodottori e li invitavano, ancora rintronati, a posare sorridenti coi loro genitori. Scene raccapriccianti, alle quali sapevo di dover sottostare anch’io.
L’inizio della mia discussione era previsto per le 16, ma avevo messo in preventivo che l’orario non sarebbe stato quello. Immaginavo uno di quei ritardi cosmici che gli esami degli anni precedenti mi avevano fatto sopportare. In realtà, alle 16,15, una bidella uscì dall’aula e chiamò il mio nome.
Fu come un proiettile alle ginocchia: mi sentii le gambe mancare. Ostentai sicurezza dirigendomi spedito verso la porta ma in realtà quella sensazione di crollo non l’avevo mai provata prima. E mai più la provai in seguito. Ciò nonostante proseguii il mio cammino verso la sedia del candidato che era sistemata proprio al centro dell’aula. Negli scranni alle mie spalle presero posto parenti, amici e qualche estraneo che prendeva appunti. Davanti a me la lunga tavolata della commissione, composta da professori più o meno altezzosi, quasi tutti oltre i cinquanta tranne i relatori. Me la stavo facendo sotto, inutile negarlo. Non fu inutile, invece, reagire alla situazione raccogliendo tutte le nozioni che avevo sparse nei meandri del cervello per rispondere alle domande. Non ricordo bene lo svolgimento dell’interrogazione, so che ci fu un momento in cui puntualizzai con determinazione ad alcune osservazioni sollevate dal presidente della commissione. Andò tutto bene. Quando il presidente disse che la commissione si ritirava per valutare mi alzai e mi diressi verso l’uscita. Avevo finito. Rientrai dopo pochi minuti per sentire il voto finale e stringere le mani ai professori, che mi fecero i loro auguri per un futuro radioso. Sapevo che del mio futuro a loro non interessava niente, ma in quel momento di decompressione mi sembrarono affermazioni sincere.
Statistiche della finale: domande: tre. Tempo di gioco: dieci minuti. Valutazione della tesi: cinque punti su cinque. Pensai che fosse assurdo valutare una tesi in quel modo, ma alla fine che importava? Tutto aveva funzionato bene: ero dottore e chiudevo quella parentesi noiosa della mia vita. Ma in quel preciso istante quella parentesi assumeva un profilo diverso: mi faceva effetto la consapevolezza di aver appena scritto la parola fine ad una stagione durata cinque anni. Tra baci, abbracci e complimenti di parenti e amici che sembravano più contenti di me, il mio sguardo scappò verso il cielo di quel pomeriggio in bilico tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Mi ricordai dei primi mesi, quando l’università mi appariva una montagna troppo alta da scalare. La prima estate di studio, coi libri portati al mare e i pensieri d’amore che riempivano di sé le pagine che leggevo e gli anni a venire. Mi sembrò di rivedere tutto in quel cielo così terso, che calava come un sipario sul primo atto della mia vita.

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