domenica 27 luglio 2008

Mario Kempes

Ancora oggi, le rare volte che mi capita di vedere la sua foto su internet o sulle pagine di qualche almanacco per amanti di statistiche, un brivido mi assale.
Il volto di Mario Kempes, immortalato nel grido di gioia che segue i due gol segnati per l’Argentina nella finale del Mundial 78, mi prende sempre come la luce inarrestabile di una giornata di sole, il sole di quell’estate “argentina”. Mario Kempes era un idolo per la sua gente, l’immagine di un eroe moderno dai connotati antichi.
Cavalcava rigoglioso nella tre quarti campo avversaria, completamente avulso e refrattario a qualsiasi logica tattica. L’istinto lo spingeva a percorrere gli spazi di tutto il fronte offensivo, rendendo difficile la definizione di un ruolo nel quale inquadrarlo. Mario Kempes non era un centravanti, non era un’ala, non era un rifinitore. Ed era tutto questo contemporaneamente. Era spinto dal vento che muoveva i suoi lunghi capelli da indiano, che rendeva inarrestabili le sue corse a perdifiato coi calzettoni perennemente abbassati. Il suo sguardo era ruvido e dolce, aggressivo e confortante, intenso e leggero, serio e pronto al sorriso. Se non avesse fatto il calciatore avrebbe potuto essere un cantante rock, o un attore. Era nel suo DNA diventare famoso e raccogliere su di sé l’attenzione delle folle. Lo immagino facilmente che performa un assolo di chitarra elettrica sul palco, che recita la parte dell’eroe coraggioso che si oppone ai potenti in nome dei diseredati: chi, meglio di lui, per impersonare Zorro, Robin Hood o Michael Collins?
Kempes sembrava uscito da un racconto di Osvaldo Soriano: una di quelle figure che raccolgono in sé la magia, le illusioni, le storie ed i sogni di ogni recondito angolo dell’America latina.
Una figura così è nomade per vocazione: dopo la vittoria del Mundial, emigrò in Spagna, a Valencia, dove non riuscì mai ad essere pienamente all’altezza della sua meritata fama. Nei mondiali dell’82 era ancora titolare della nazionale che aveva trascinato al successo quattro anni prima, ma il suo nome era ormai più grande del suo valore: come giocatore la sua stella si spense abbastanza presto.
Appese le scarpe al chiodo, intraprese la carriera di allenatore, senza successo. Qualche anno fa lessi sui giornali della sua storia di investimenti sbagliati, che l’aveva ridotto a chiedere aiuto ai vecchi amici. Per racimolare qualche lira, nel suo vagare gitano, arrivò anche da noi come allenatore di un Catanzaro che, all’epoca, traghettava miseramente nelle serie minori. Ma lui era così, uno zingaro del pallone, fuori dagli schemi ma senza drammi o disperazione, quasi che la buona e la cattiva sorte, una volta sopraggiunte, fossero ugualmente benvenute.
Quanto ci manca Mario Kempes a noi amanti del pallone.

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